Bujumbura (Diario di un viaggio missionario 3 parte)

Continua il racconto di alberto Chiappari che con la sua famiglia ha fatto un viaggio Missionario in Congo  e in Burundi:

 

https://www.laicatosaveriano.it/2019/09/26/bukavu.html (29 giugno/2 luglio)

https://www.laicatosaveriano.it/2019/08/26/diario-del-viaggio-missionario-in-congo-goma1-parte.html (20 giugno /28 giugno)

Mercoledì 3 luglio 2019

Partiamo per Bujumbura. Io continuo a non star bene. Ci accompagna il fido Kasangangio con cui non abbiamo nessun problema linguistico dato che parla un ottimo italiano. Usciamo dal Congo e a piedi superiamo il ponte che scavalca il fiume Ruzizi. Arriviamo alla frontiera con il Ruanda e perdiamo parecchio tempo. Io devo sedermi per la stanchezza. Di fronte abbiamo un ufficio che pubblicizza il Parco dei Gorilla con una magnifica foto di un maschio con il manto “d’argento”. Anche in questo caso il Ruanda sfrutta le cose che sono anche del Congo (veramente spesso sfrutta anche quelle che sono solo del Congo). Emanuele e Giovanni fanno una chiacchierata in inglese con un funzionario di qualche ente governativo. Mi avvicino per presentarmi, hanno parlato anche di Milan e di Berlusconi! Mentre siamo in fila una disabile ci avvicina per chiederci soldi, si rinnova il dolore.

Dopo parecchio tempo riusciamo a ripartire. Siamo in Ruanda, il paese delle mille colline, ma anche del genocidio più feroce dopo le stragi di ebrei della seconda guerra mondiale. Il paese si presenta completamente diverso dal Congo: strade asfaltate, ordine, pulizia. Un altro mondo. Anche le coltivazioni non sono più solo quelle di semplice sussistenza che abbiamo visto finora, costeggiamo per esempio una grande coltivazione di te e più avanti estese coltivazioni di cotone che io non avevo mai visto.

Peccato che i vestiti dei bambini che incontriamo lungo la strada (ma perché gli africani sono sempre a piedi sulle strade? Già…ben pochi hanno l’auto) non siano molto diversi da quelli dei bambini congolesi.

Impressiona vedere in ogni villaggio i cartelli che ricordano il genocidio.

Quando siamo alla frontiera per uscire dal Ruanda sto di nuovo male. Mi siedo su una panchina insieme a Kasangangio. Anche lui non sta bene per la febbre da malaria, scopro che molti africani nel tempo hanno acquisito una sorta di vaccinazione che non fa scomparire la malaria del tutto ma ne attenua gli effetti. Arriviamo al confine con il Burundi. La prima cosa che fanno è misurarti la febbre (era successo anche all’ingresso in Ruanda) perché la febbre alta è uno dei sintomi dell’ebola. Sono preoccupato perché temo di averla. Cosa mi succederebbe se l’avessi? Resterei bloccato in Ruanda? Sarei costretto, obtorto collo ad essere ricoverato in un ospedale africano? Per fortuna va tutto bene e passiamo al controllo dei documenti. Sto sempre più male e ad un certo punto mi nascondo dietro il muro della dogana e vomito cercando di non farmi vedere da nessuno perché il vomito è il secondo sintomo dell’ebola come molti cartelli sparsi per il Congo fanno capire tramite chiare immagini.

Ritorno negli uffici di frontiera con indifferenza, nessuno si è accorto di nulla.

Ripartiamo, siamo entrati in Burundi! Il viaggio prosegue fra piccoli villaggi, molta gente per strada e tantissimi posti di blocco. Non capisco se siano poliziotti o soldati comunque ci fermano tutti e sono tutti ben armati. Kasangangio è abilissimo nel cercare di velocizzare queste soste. In particolare dice sempre che siamo di corsa perché siamo in ritardo per prendere l’aereo a Bujumbura. Quando non funziona c’è sempre il piano B: qualche banconota opportunamente tenuta nel posacenere apre tutte le porta con questi militari che forse non sempre prendono lo stipendio regolarmente.

Arriviamo finalmente a Bujumbura. La città si presenta ordinata e con un traffico tranquillo. E’ stata la capitale del Burundi fino all’inizio del 2019 e si nota.

Per prima cosa arriviamo alla parrocchia di Kamenghe e salutiamo padre Mario, poi andiamo alla Domus dove padre Giovanni ci accoglie e dove saremo alloggiati. Ora ho davvero la febbre e il terzo sintomo dell’ebola (che lascio all’immaginazione di ciascuno). Mi metto a letto fino al giorno dopo.

Nel frattempo, così mi raccontano, appare anche qui padre Deo che gongolante fa vedere a tutti le foto che è riuscito a fare agli ippopotami usciti dal lago Tanganika.

Gli ippopotami sono la presenza più ingombrante e pericolosa della fauna selvatica africana a Bujumbura. Qualche volta la sera bloccano il traffico invadendo le aiuole della città.

Mi viene un dubbio, ma padre Deo ci sta seguendo? E’ mandato dal superiore dei Saveriani per spiare la nostra buona condotta? Beh se così fosse, ha inviato dei buoni rapporti su di noi perché non siamo mai stati espulsi dalla case saveriane!

 

 

Giovedì 4 luglio 2019

 

            Il mattino dopo sono miracolosamente in ottima forma. Partiamo con una jeep dei padri piuttosto “scassata” accompagnati dall’autista dei padri. Inizialmente dovremmo andare ad una sorta di museo ma poi deviamo per un piccolo supermercato che dicono “italiano” (ed in effetti ci troviamo padre Giovanni e la pasta Barilla) alla ricerca di bicchierini da liquore che la Giovanna, constatatene l’assenza alla Domus, vuol regalare ai padri. I bicchierini non ci sono (li troveremo il giorno dopo naturalmente dai cinesi) e ripartiamo alla volta del lago Tanganika. In uno stretto passaggio fra locali che ne occupano le rive, ci troviamo di fronte al più grande lago che abbiamo mai visto e l’impressione non è lacustre ma decisamente marina.

Torniamo in parrocchia a Kamenghe, vi è un momento di adorazione dentro al Santuario delle tre martiri. Era la casa delle missionari saveriane che vivevano qui collaborando con i padri. Nel 2014 avvenne il loro brutale assassinio e da allora la casa è stata trasformata in una chiesetta. Delle divisorie in camere è rimasto solo un piccolo gradino a indicare il perimetro delle stanze stesse. Di chi fosse la camera lo si capisce dalle foto di Olga, Lucia e Bernadetta appese ai muri corrispondenti.

Nel pomeriggio visitiamo il “Centre junes Kamenghe”. E’ stato fondato nel 1991 da padre Claudio Marano ed ora è gestito da sacerdoti burundesi. Opera con i giovani dei quartieri nord della città (Buterere, Cibitoke, Gihosha, Kamenge, Kinama e Ngagara).

I problemi che i giovani burundesi devono affrontare sono tanti: corruzione, mala educazione sanitaria, poca prevenzione (AIDS), povertà, disgregazione sociale-isolamento e mancato coinvolgimento dei giovani nella formazione come nella vita pubblica, violenza, droga.

Sono presenti molte attività gratuite: teatro, musica, sport, cultura, lingue, computer. Inoltre sono in corso 4 progetti: Alfabetizzazione, Pace, Associazioni Animazione AIDS.

Educazione alla pace e inclusione sociale sono lo scopo principale di tutte queste attività assieme a quello di abituare i giovani a vivere assieme, nonostante le differenze etniche, religiose, di genere, di paese, economiche. Negli anni sono passati  50.000 giovani e i progetti esterni hanno coinvolto centinaia di miglia di persone.

In particolare ci colpiscono le dimensioni e l’efficienza del centro, la vita che ci gira attorno, la preparazione del prete che ci presenta il centro. Interrompiamo una lezione d’inglese, notiamo l’abilità dei giocatori di basket, visitiamo un enorme auditorium.

Fra le curiosità che ci colpiscono vi è la distesa di carriole, badili e vari attrezzi posti ordinatamente vicino agli edifici del Centro. Ci spiegano che servono ai ragazzi che vanno in giro per il quartiere ad aiutare la gente facendo vari lavori, una forma originale, almeno per noi, di volontariato.

Ci fanno anche notare che nei muri che circondano il centro vi sono molte porte: durante la guerra civile (anche qui dal 1993 fino al 2005 si sono “scannati” Hutu e Tutsi), la possibilità di rifugiarsi velocemente dentro al Centro era la differenza fra la vita e la morte.

Siamo molto colpiti dall’organizzazione e dal livello del Centro.

Proseguiamo a facciamo un giro per la città. La prima meta è il Santuario di Mont Sion a KiKungu. Una grande chiesa nello stile di quelle che abbiamo visto anche  Goma e Bukavu, a semicerchio con il fulcro sull’altare, con un leggero dislivello in modo che tutti possano vedere la celebrazione anche dai posti più lontani. E’ una struttura aperta fatta soprattutto da acciaio.

Cerchiamo di andare a vedere la villa del presidente sulle colline ma un militare ci sbarra la strada e allora deviamo verso un monumento patriottico che c’è poco lontano. E’ all’interno di un muro di cinta chiuso da cancelli. Emanuele cerca di entrare  ma alcune donne, visibilmente, gli chiudono il cancello in faccia: forse i bianchi non sono graditi.

A pranzo festeggiamo il compleanno di Giovanna con una torta acquistata da padre Giovanni. A pranzo è sempre presente una suora burundese che pare abbia fondato un suo ordine. Ha aperto un piccolo atelier presso la Domus dove lavorano donne disabili. A noi colpisce soprattutto per gli abiti stravaganti e molto sintetici probabilmente frutto del suo lavoro da “stilista”: fanno caldo solo a guardarli!

Nel pomeriggio incontriamo per la prima volta i Laici Saveriani Burundesi. All’incontro è legato la nostra venuta a Bujumbura. Sono presenti anche Stanì

per i laici di Goma e Pacific per quelli di Bukavu. Ci riuniamo nel santuario delle tre martiri saveriane per un primo momento di presentazione. In particolare Paolo presenta la nostra realtà italiana. E’ la seconda volta che lui e Giovanna vengono a Bujumbura per incontrare i laici su invito di padre Mario

Dopo l’incontro c’è la cena insieme ai Laici burundesi. E’ cena con piatti locali comunque ottimi. Data la nostra difficoltà nella lingua (oltre al francese ahinoi non sappiamo nemmeno il Kirundi!) parliamo soprattutto con padre Modesto un simpatico ed anziano saveriano italiano in Burundi dagli anni ’60.

Notiamo la grande differenza somatica dei Burundesi che incontriamo rispetto   ai congolesi. Probabilmente sono Tutsi, alti e slanciati

 

Venerdì 5 luglio 2019

 

Andiamo a visitare un dispensario nato dai Saveriani ed ora gestito da suore polacche. Una di queste ci fa vedere la struttura che è ben organizzata e pulita. E’ senz’altro il punto di riferimento sanitario di tutto il quartiere. Visitiamo anche la sala parto, che, contrariamente che da noi, è molto frequentata. Alla fine della visita la suora ci invita nella loro casa dove ci fa conoscere la superiora e ci offre una bibita. A pranzo incontriamo Luisa che anch’essa è ospite della Domus. E’ una volontaria veneta che da anni fa la spola con il Burundi e sostiene soprattutto il conterraneo padre Bruno.

A pranzo vi è anche lui che chiacchiera con padre Guglielmo. Sono due vecchi amici e si prendono reciprocamente in giro ridendo e punzecchiandosi. Padre Bruno nella vita è stato molto concreto, è famoso per essere un padre costruttore di chiese, di scuole, di dispensari che costellano il Burundi. Nel 2008 ha ricevuto a Brescia il premio “Cuore amico” il cosiddetto “nobel missionario”. Padre Guglielmo è invece famoso per essere un postulatore di beati e santi. Anche ora è in Burundi per raccogliere testimonianza sul martirio di sacerdoti e seminaristi burundesi ma anche dei padri Ottorino Maule e Aldo Marchiol e della laica Catina Gubert, saveriani, uccisi nel 1995 durante le turbolenze della guerra civile.

A me la “pelata” di padre Guglielmo, le sopracciglia di padre Bruno, le risate e l’allegria contagiosa hanno subito fatto ricordare i due straordinari “vecchietti” del “Muppet show”. Se non fosse che entrambi dimostrano una profondità d’animo e culturale davvero sorprendente.

 

Il santuario delle suore

Ci siamo raccolti in questa piccola chiesa da poco aperta. Non c’è stato nessun architetto a costruirla, è stato il sangue delle tre saveriane martiri ad averla progettata. E’ diventata un luogo di pace e di perdono. Capisci che quel perimetro basso di mattoni è il segno lasciato per indicare le stanze delle suore. Dove dormiva una o l’altra lo capisci dalla foto appese ai muri. Le Saveriane hanno lasciato Kamenghe dopo quel tragico fatto. Troppo forte il dolore anche per loro che ne hanno lenito tanto nel mondo. La casa è divenuta una chiesa dove vengono a pregare le persone del quartiere. Padre Mario, lentamente, ci racconta i suoi ricordi, la morte delle prime due, l’uccisione, ancora più assurda, della terza, quando la polizia circondava già il recinto della parrocchia.

Che motivo c’era di uccidere tre anziane suore che al popolo africano avevano dato la loro vita? Quali misteri dietro una apparente “normale” fatto di cronaca? Quali connivenze? Perché tanta ferocia? Perché gli sfregi? Perché di una volontà di sangue così pervicace?

Nel racconto di padre Mario capisci il suo dolore, intuisci i sensi di colpa per non aver capito in tempo, senti le sue difficoltà ma anche la necessità di raccontare, di aprirsi. Lo vedi fragile ma nello stesso tempo forte, un uomo che ha trovato la forza di proseguire il suo impegno qui dove tutto è accaduto.

Olga la catechista, Lucia l’ostetrica, Bernadetta che aiutava le donne. Abbiamo visto le loro tombe a Bukavu ma qui nel loro “santuario” è difficile contenere l’emozione.

 

Nel pomeriggio c’è l’incontro con i laici, ci chiedono di fare un intervento. Ci sentiamo in imbarazzo e dobbiamo essere tradotti da padre Mario dall’italiano al francese. Non ci sembra di aver fatto un intervento epocale ma Giovanna ci tranquillizza dicendoci di aver fatto un’ottima presentazione del nostro percorso personale e di famiglia.

E’ bello notare la differenza di sensibilità ma anche di interpretazione del ruolo di Laici saveriani. C’è chi punta alla preghiera con il rosario missionario, chi al mutuo aiuto fra membri del laicato; quelli di Bukavu sostengono anche i carcerati. Noi italiani abbiamo sicuramente un altro approccio e sviluppiamo soprattutto un opera di sensibilizzazione alla missionarietà ma anche alla difesa dei diritti di tutti i popoli, alla difesa dell’ambiente, alla universalità della Chiesa. E’ per forza diverso l’approccio di laici che vivono in paesi in via di sviluppo e laici che vivono in uno dei paesi del G7. E’ bello però sentirsi uniti verso un unico scopo: “Fare del mondo una sola famiglia” (mons. Conforti).

 

Sabato 6 luglio 2019

E’ il nostro ultimo giorno in Africa. Anche per la presenza dei ragazzi, ci dispensano dal terzo incontro con i laici. Padre Mario si offre di portarci in giro. A noi bastava vedere le strutture della parrocchia ma lui ha forse voglia di evadere per un po’ dalla sua realtà. Ci porta ancora nella parte alta della città ma questa volta superiamo il monumento e raggiungiamo la scuola dei Gesuiti. Ci racconta della guerra civile dello scontro fra Hutu e Tutsi, di come gli Hutu a volte andassero verso la morte senza ribellarsi. Ci racconta di confratelli uccisi ben consapevoli di quello che rischiavano. E’ convinto che il Burundi sia ancora, sotto l’apparente tranquillità, una pentola in ebollizione. Poi ci accompagna verso il confine con il Congo. Superiamo il fiume Ruzizi ed entriamo in un’area che il Burundi ha conquistato al Congo. Passiamo vicino ad una riserva naturale. Dice che ci sono spesso gli ippopotami ma, “fortunello”, in questi giorni li ha visti solo padre Deo. Vediamo la fine della Piana degli elefanti che avevamo costeggiato anche per arrivare in città. E’ una vasta pianura in parte acquitrinosa dove ora di elefanti non vi è nemmeno l’ombra.

Arrivati al confine ritorniamo per la stessa strada.

Ci fermiamo però a trovare le suore di Madre Teresa. Hanno un centro dove raccolgono orfani ma anche disagiati ed anziani. I bambini, come al solito ci “assaltano” e ci prendono per mano. La vene che spiccano sulle mani di Serena sono oggetto di una grande curiosità. E’ stata una bellissima mattinata ma è stato soprattutto bello conoscere padre Mario.

A pranzo si festeggia il mio compleanno. Giovanna con la sua solita sensibilità ha trovato un crocifisso in banano da regalarmi a nome di tutti. Sarà un segno d’Africa nel mio ufficio.

Nel pomeriggio accompagnati da padre Mario e dal suo simpatico autista ci imbarchiamo all’aeroporto. Già prima di partire abbiamo il “Mal d’africa”.

 

 

Questo diario ha voluto innanzitutto rappresentare un modo per fissare i nostri ricordi, per ricordare persone, luoghi e momenti emozionanti. Alla fine è giusto che fissiamo e condividiamo anche su alcune riflessioni che questo viaggio ci ha fatto scaturire.

In primo luogo il rapporto nord-sud del mondo: abbiamo toccato con mano l’impegno dei missionari ma anche la presenza di tante ong e dell’Onu (Monusco, Unicef) ma la sensazione è che, al di là di tutto, non ci sia, da parte della comunità internazionale, una reale volontà di risolvere i problemi.

Le grandi ricchezze naturali e minerarie che ha il Congo, lo rendono ostaggio degli interessi di altri paesi anche degli invadenti vicini (Ruanda e Uganda). I paesi europei, gli Stati Uniti e, soprattutto negli ultimi tempi, la Cina, non hanno alcun interesse a che i paesi africani crescano e si sviluppino e soprattutto che si riduca la grande corruzione che permette l’acquisto di materie prime ad un costo bassissimo lasciando così alla popolazione meno delle briciole. Cosa succederebbe se il Congo riuscisse a far pesare che oltre l’ottanta per cento del Coltan, il minerale indispensabile per l’industria elettronica ed in particolare per quella degli smartphone, si trova nel suo sottosuolo?

La sensazione che si prova è quella dell’impotenza. Riesce difficile pensare ad uno sviluppo partendo da una tale situazione di povertà. A questo si aggiungono superstizioni, rivalità tribali, bassa scolarità e, soprattutto, ancora oggi, una grande instabilità politica e, sul fronte della sicurezza, molte bande armate ancora ben presenti sul territorio le quali rendono quasi impossibili, con le loro razzie, iniziative economiche significative.

Questo è ancora più triste dal momento che abbiamo incontrato molti giovani consapevoli, competenti e vogliosi di crescere di far crescere il loro paese. Purtroppo li abbiamo trovati anche demoralizzati: la parola che chiude spesso i loro interventi è “corruzione”.

Ci ha colpito il numero di bambini e di giovani: nella parrocchia di Ndosho a Goma, dove si trova la casa dei laici saveriani che ci ha ospitato, il campo estivo ha accolto oltre 2000 bambini!! E tanti sono i giovani impegnati nell’animazione e nella pastorale. Questo sicuramente trasmette entusiasmo e speranza ed è forse il vero motore di questo immenso Paese.

Siamo partiti dall’Italia in un momento politico molto critico e dall’Africa le misure messe in campo dai nostri politici sia italiani che europei fanno ancora più impressione e lasciano veramente senza parole: pensare di risolvere il tema della migrazione africana, chiudendo i porti o trattando per giorni come “dividersi” qualche decina di persone è veramente riduttivo, miope ed ottuso…al di là del fatto che sia pure disumano. E’ necessario calarsi nella realtà di queste popolazioni, conoscerne la storia e costruire relazioni significative con tutte quelle donne e quegli uomini congolesi che spesso insieme e su stimolo dei missionari laici e religiosi, si prestano a lavorare per le loro comunità e cercano di promuovere il cambiamento che è innanzitutto consapevolezza e conoscenza.

La Chiesa in questo caso ha avuto e ha attualmente un ruolo determinante. Chiesa fatta di missionari religiosi che spesso hanno dato la loro vita come è recentemente accaduto alle tre sorelle saveriane. Chiesa fatta anche di laici come Luisa, Francesco, Monica che abbiamo incontrato e che da anni hanno messo a disposizione le loro competenze e le loro conoscenze. Con passione e speranza condividono la quotidianità con i congolesi impegnandosi per dare loro un futuro di dignità e di diritti.

Abbiamo respirato l’universalità della Chiesa nel suo essere presente in tutto il mondo sapendosi incarnare nelle realtà locali. Abbiamo visto una Chiesa giovane, convinta, entusiasta della propria fede. La partecipazione alle funzioni ci ha inevitabilmente fatto notare quanto siano diverse dalle nostre stanche celebrazioni.

Abbiamo voluto vivere questa breve esperienza di missione come famiglia e non è stato semplice anche per i nostri figli: poca acqua a disposizione, poca luce, pasti sobri, wi-fi limitato, un’immersione nella povertà assoluta che non può lasciare indifferenti. Come famiglia ci siamo sentiti “chiamati” e non sappiamo come e dove ci porterà questa esperienza; sicuramente ha contribuito ad aprire il cuore e la mente di ciascuno di noi.

Crediamo che molto si possa fare anche da qui, all’interno della comunità in cui viviamo, nelle relazioni con le persone che incontriamo, nelle scelte economiche e di attenzione all’ambiente che possiamo compiere nei gesti quotidiani.

Ciò che abbiamo vissuto ha contribuito a farci capire che non siamo al centro del mondo e che è per un puro caso che abbiamo avuto la fortuna di nascere nell’emisfero “ricco”; ci ha fatto capire che ci sono donne e uomini che hanno bisogno, oltre che di aiuti concreti, soprattutto della nostra condivisione, di qualcuno che li accompagni per un pezzo di quella quotidiana faticosa strada che percorrono ogni giorno, di qualcuno che non li giudichi ma che cerchi di comprenderli al di là delle differenze.

E’ in questo senso che il nostro viaggio, seppur breve, è divenuto una vera esperienza di missione.

 

 

 

 

 

 

 

 

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