Viaggi disperati in cerca di speranza

Simone e Roberta ci raccontano la loro esperienza sugli sbarchi di migranti ad Ancona

A fine dicembre il governo Meloni ha introdotto un codice di condotta da applicare alle navi delle ONG che prestano soccorso in mare: una volta soccorsi i migranti in mare, l’equipaggio dovrà avvisare tempestivamente le autorità italiane che assegnano a questo punto un porto di sbarco sicuro, che andrà «raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso», qualunque esso sia e senza soste per effettuare eventuali “soccorsi plurimi”. Se si violano queste norme, sarà negato l’ingresso delle navi nei porti italiani, il comandante della nave potrà incorrere in una sanzione amministrativa e potrà essere imposto il fermo amministrativo della nave fino a 2 mesi come peraltro accaduto alla Geo Barents, bloccata per 15 giorni, dopo l’ultimo sbarco di Ancona per non aver messo a disposizione la scatola nera.

Queste misure sono la conferma della politica messa in pratica dal governo per ostacolare il lavoro delle ong: alle navi che chiedono di sbarcare dopo aver effettuato un soccorso in mare, viene assegnato un porto lontano anche giorni di navigazione dal luogo del soccorso. Evidenti le motivazioni: la prima è quella di aumentare i costi sostenuti dalle navi, per metterle in difficoltà dal punto di vista economico, la seconda è quella di allontanare per giorni le navi stesse dalle acque in cui vengono effettuati più frequentemente i soccorsi.

Il risultato è che a fronte di un naufragio come quello di Cutro, giunto alla cronaca perché avvenuto a poche centinaia di metri dalla costa, potenzialmente potrebbero e probabilmente ci sono stati naufragi di cui ignoriamo l’esistenza, perché nessuna nave poteva essere nei pressi a monitorare.

Nei mesi scorsi siamo stati chiamati a vivere l’esperienza diretta dello sbarco di oltre 150 migranti arrivati ad Ancona in quattro diverse occasioni. Tante persone, già pesantemente provate con un disagio fisico e psicologico importante, sono state costrette – da un decreto disumano e insensato – ad un penoso prolungamento del loro viaggio per giungere nel porto dorico denominato porto sicuro. La Caritas diocesana è stata inserita nel tavolo di lavoro insieme a prefettura e protezione civile, per aiutare le operazioni di sbarco. 

Per una serie di circostanze ci è toccato il privilegio di essere le prime persone ad accogliere i migranti della Geo Barents appena hanno messo piede sul suolo italiano. Eravamo incaricati di accoglierli, farci dire il numero di braccialetto che indossavano e mettergliene al polso un altro mentre comunicavamo i vari dati all’assistente sociale della prefettura. 

Questi ragazzi erano tutti maschi, avevano al polso un bel numero di braccialetti, a noi interessava l’ultimo, quello che gli avevano messo sulla nave. 

È stata veramente dura mantenere un certo decoro e cercare di sorridere con gli occhi attraverso la mascherina, pronunciare un welcome strozzato, cercare di comunicare un senso di accoglienza, rassicurare in qualche modo. Non poter chiedere il nome ma etichettarli con un numero, beh vi lasciamo immaginare cosa ci ha suscitato. Non potremo dimenticare mai, soprattutto quando si è trattato di accogliere i ragazzi minorenni, alcuni dei quali avevano al massimo quattordici anni, la spossatezza dei corpi che scendevano dalla passerella, gli sguardi sfiniti e smarriti che ci rivolgevano. 

Mentre eravamo lì, il pensiero è andato più volte ai tanti ragazzi conosciuti nel corso degli anni. Ci siamo resi conto che questi nuovi migranti che sono riusciti ad arrivare in Europa, grazie alle ONG, hanno raggiunto un grande  traguardo ma che li attende nei giorni e nei mesi a venire un periodo ugualmente duro, senza garanzie di futuro.  

Questa esperienza vissuta poco più di un mese fa ha fatto sì che, nonostante l’indignazione, l’amarezza, il dolore provato per i tanti morti che si sono succeduti in questi anni, il naufragio di Cutro e quello più recente al largo delle coste libiche,  ci abbia straziato ancora di più. 

Chi cerca di essere vicino a queste persone, sa da tempo che nonostante le cure e le attenzioni che si possono riservare loro, non si riuscirà mai a capire fino in fondo che cosa li ha spinti, quali sentimenti li hanno agitati, dove hanno trovato la forza o la sconsideratezza di compiere quel viaggio. Noi non sappiamo niente della loro disperazione, non osiamo nemmeno paragonarci ai loro vissuti, a volte ci proviamo e subito ci vergogniamo, sappiamo quanto siamo inadeguati quando cerchiamo di capirli e stare loro accanto. È per questo che le parole pronunciate da Piantedosi agghiacciano e sconvolgono. 

Vi lasciamo con una piccola storia di speranza. Un ragazzo gambiano, lo chiameremo Giovanni, è stato per qualche anno in casa di accoglienza in una struttura della Caritas. Quando è arrivato era molto giovane ed evidentemente traumatizzato, non parlava con nessuno e l’unica che era riuscita a fargli dire due parole, l’unica con cui aveva instaurato un piccolo dialogo in un inglese stentato è stata Ester che al tempo aveva circa 14 anni. 

Giovanni ha fatto il suo percorso verso l’autonomia, è stato accompagnato nella ricerca di un lavoro e poi di un appartamento. Sono passati alcuni anni, per varie ragioni non lo abbiamo più visto, fino a quando quest’estate mentre andavamo a prendere un caffè in un bar l’abbiamo incontrato. Era con alcuni ragazzi italiani, tra cui la sua fidanzata, ci ha fermato subito, abbiamo fatto due chiacchiere, aveva proprio un bel sorriso sereno, ci ha raccontato che stava lavorando e che andava tutto bene. 

Qualche settimana fa con Marta in macchina, che all’epoca in cui Giovanni era in Caritas faceva le scuole elementari, eravamo fermi ad un semaforo. Lei guarda la macchina di una scuola guida ferma davanti a noi e dice: “Ma quel ragazzo che scende non è Giovanni?” Ci sbracciamo a salutarlo, ricambiati. 

Insomma, Giovanni sta prendendo anche la patente e speriamo tanto che le ombre del passato, che forse lo accompagneranno per sempre, diventino sempre più sbiadite. Giovanni è stato aiutato ma lui per primo ha preso in mano la sua vita, la sua disperazione è diventata ora l’occasione di un futuro nuovo. 

Quanti Giovanni c’erano quel sabato notte davanti alle coste calabresi su quella barca? Non riusciamo a non pensare a tutta quella disperazione che è rimasta tale, non ha avuto futuro, anzi si è moltiplicata ed è diventata la disperazione di parenti, amici, e anche un po’ nostra. Eppure, è necessario per noi continuare a coltivare la speranza, come fanno tutti quelli che partono in situazioni disperate, e a cercare ciò che inferno non è in questo nostro tempo difficile.

Roberta e Simone

 

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