BUKAVU (diario del viaggio missionario in Congo…. parte2

 

Continua il racconto di alberto Chiappari che con la sua famiglia ha fatto un viaggio Missionario in Congo ( Il 26 agosto abbiamo pubblicato la prima parte svolta soprattutto a Goma)

 

BUKAVU

Sabato 29 giugno 2019

La nostra permanenza a Goma ha termine. C’è voglia di conoscere una nuova realtà ma nello stesso tempo siamo dispiaciuti di non aver potuto approfondire le tante cose viste. Il viaggio a Bukavu inizia prestissimo. Partiamo all’alba per il porto dove prenderemo un traghetto che attraverserà perpendicolarmente tutto il Lago Kivu. All’arrivo al porto l’atmosfera è molto congolese, un insieme di confusione e rumori assordanti. Cerchiamo di fare da soli, Paolo nega di aver bisogno per le valigie a tutti quelli che si vogliono offrire come facchini. La partita è, naturalmente, persa e i nostri bagagli sono “preda” di alcuni giovani che li portano sul traghetto.

 

Saliamo al secondo piano, la prima classe, con un po’ di imbarazzo perché in terza classe lasciamo Patrick, uno dei custodi della parrocchia di Ndosho. Ci sentiamo i ricchi bianchi che si possono permettere i posti migliori e non si “mischiano” con il popolo nero. In realtà con tutti i bagagli sarebbe stato impossibile stare nelle altre classi e comunque anche la “prima classe” è molto congolese perché da un lato è molto vistosa (le poltrone sono gigantesche) dall’altro il tutto è molto vecchio e sciupato. Anche la colazione con pane, margarina e “sucré” non è proprio una “sciccheria”.

Luca si aggiunge alla lista dei malati, nonostante Giovanna continui a sostenere che da quando viene a Goma ad accompagnare gruppi “nessuno è stato mai male!”.

Saliamo sul ponte del traghetto ma nella prima parte il viaggio è noioso perché vi è molta foschia e non si vede il panorama. Quando però il lago si stringe e si avvicinano le isole, lo “spettacolo” è assicurato: campi coltivati, piccole casette, capanne con il tetto di foglie, pescatori in canoa, panni coloratissimi stesi ad asciugare sui prati, barche con lunghi bilancieri pronte- lo scopriremo a Bukavu- alla pesca notturna. E’ l’Africa stupenda ed arcaica, ricchissima e poverissima quella che vediamo lentamente scorrere davanti ai nostri occhi.

I marinai del traghetto, in un’impeccabile uniforme bianca, ci mettono a disposizione delle eleganti poltroncine rosse dai fasti ormai lontani e ciò che risalta sono le evidenti macchie sul tessuto. Sembrano un po’ la metafora del Congo: magnifico e “straccione”. Entriamo anche nella cabina di pilotaggio dove, per fortuna, vi sono anche strumenti molto moderni. Ci rilassiamo definitivamente perché non è che all’inizio non avessimo qualche preoccupazione: fra notizie di

affondamenti, esalazioni di gas ed esplosioni, su internet trovi che il lago Kivu è il lago più pericoloso del mondo!!!

 

In effetti la navigazione prosegue tranquilla. Ad un certo punto ci avviciniamo ad una piccolissima isola, curatissima. Case piccole ma perfette, giardini, campi da gioco e cartelli di proprietà privata. Sembra un angolo di nord Europa in mezzo ai tropici. In effetti pare sia di proprietà di un ricco belga che viene a farci le vacanze.

Avvicinandoci a Bukavu si intensifica la presenza di barconi carichi di gente, spesso con addosso il giubbotto salvagente. Intuiamo siano una sorta di autobus del lago con cui la popolazione rivierasca più povera si sposta. Forse sono questi che affondano con una certa frequenza.

Arriviamo finalmente a Bukavu. Il porto è un po’ (molto) “sgangherato” e mi domando come faremo ad attraccare. La banchina è piena di gente. Sotto di noi alcuni bambini si tuffano nell’acqua putrida e piena di rifiuti. Come all’andata i bagagli spariscono nelle mani di ragazzotti, questa volta tutti in maglietta bianca.

Scendiamo sulla banchina, la confusione regna sovrana. Per fortuna ci “salvano” padre Benjamen e Francesco che ci sono venuti a prendere con i fuoristrada della missione. Mentre andiamo alla macchine mi affianca un bambino che mi chiede soldi. Indossa una specie di k-way bianco che gli arriva quasi alle ginocchia e che sia bianco più che altro lo si intuisce, dato il livello di pulizia dell’indumento. Come le altre volte faccio finta di non capire ma questa volta, non so perché, è molto più doloroso.

Andiamo alla casa regionale dei padri e nel breve viaggio cominciamo a conoscere Bukavu. Mentre Goma è quasi su un piano (vallo a dire alle sospensioni delle auto!) e degrada lentamente verso il lago, Bukavu si arrampica su colline anche molto scoscese e il lago è presente sempre con le sue insenature che formano cinque dita. L’impatto cromatico è forte, mentre Goma è nera, Bukavu appare molto più colorata ed in apparenza allegra. Lo stile coloniale belga delle case è ovunque (ben più che a Goma) e sembra di stare in una ordinata città del Nord-Europa. Ci fanno notare che le colline sono costellate di case fino nelle pendenze più elevate, segno di una espansione urbana incontrollata ed incontrollabile e di un fenomeno di urbanizzazione che non conosce sosta in tutto il mondo.

Arriviamo alla casa dei padri. E’ la casa regionale del Kivu, una bella struttura con lunghi porticati dove s’affacciano le stanze in cui siamo ospitati. Le parti comuni sono ridotte alla sala da pranzo e ad una capellina molto accogliente e ben pensata.

Emanuele e Giovanni tirano un sospiro di sollievo perché, a differenza di Goma dove il wi.fi lo “rubavamo” solo di sera ai padri o alle suore, qui la connessione è sempre presente ed anche di buon livello. La parte più bella è però il giardino, molto curato, che da sotto il caseggiato degrada verso il lago. E’ un’ oasi di verde (come lo era, in piccolo, il giardino dei laici a Goma), con grandi voliere dove sono presenti dei nibbi bruni e delle tortore ed una grande gabbia dove è presente una scimmia dai gusti culinari piuttosto pretenziosi.. Nella casa ci sono anche dei

 

volontari belgi che accompagnano alcuni giornalisti venuti a raccontare la terribile vita nelle miniere del Congo. Dopo il pranzo (qui la cucina è italo/congolese perché i padri hanno “convertito” i vari cuochi), l’autista dei padri Kasangangio, ci accompagna ad un visita della città. Inizialmente andiamo a visitare la cattedrale di Bukavu, semplice e spoglia, dove vediamo la tomba di mons. Munzihirwa il vescovo della città di Bukavu che per la sua attività di pacificatore fu ucciso dai tutsi ruandesi nel 1996, durante la guerra. Poi proseguiamo verso una zona panoramica della città. La zona è molto bella ma anche qui la povertà la fa da padrona. Per la prima volta e unica volta abbiamo problemi con chi ci chiede dei soldi. Normalmente le richieste sono molto cortesi e non insistenti ma questa volta un gruppo di ragazzini ci circonda e dice a Kasangangio che se non gli diamo dei soldi faranno dei danni alla jeep. Subito non capiamo la situazione, è Kasangangio che ci dice di salire e parte velocemente. Un colpo sordo si sente sulla carrozzeria. Probabilmente un sasso.

L’autista, molto nervoso, scende e apostrofa i ragazzi. Ripartiamo. Per fortuna la cosa non ha strascichi.

 

Patrick

Lo vedi passare silenzioso ed indaffarato nel cortile dei padri con la sua giacca blu e gialla dell’”IP”. Ti saluta con un inchino e le mani giunte, all’orientale. Sempre sorridente e sempre molto gentile. Una sera, girando in parrocchia, Serena ed io lo incontriamo. Cerchiamo di parlare. Dopo tutti questi giorni ad ascoltarlo, mi invento un po’ di francese. Si offre per farci fare un giro nelle strutture della parrocchia, in particolar le grandi scuole che fanno capo ai padri Saveriani. Scopriamo una parte del quartiere che non avevamo mai visto.

E’ l’imbrunire e la notte viene veloce ai tropici. Siamo un po’ inquieti perché rischiamo di trovarci per la prima volta fuori dalle mura amiche della casa dei laici dopo il tramonto. Ci fa conoscere la moglie ed una figlia, una bambina piccola che piange a dirotto alla nostra vista. Vediamo la sua abitazione e ci rendiamo conto che anche le persone che lavorano nella parrocchia non sono “esenti” dalle difficoltà della vita a Goma. Ci fa rientrare alla casa dei laici. Lo rincontreremo anche alla ordinazione delle suore. Ci ricorderemo di lui.

 

 

Il bambino dal K-way bianco

 Mi si è avvicinato con quel suo “k-way” una volta bianco, probabilmente è un bambino di strada come quelli che abbiamo visto dal traghetto immergersi per un bagno nell’acqua sporca e piena di immondizia del porto. Si avvicinato silenziosamente con gentilezza a chiedermi l’argent”. Questa volta, se non avessi avuto solo pezzi grossi, sarei capitolato. Ma come si fa in Congo? Perché dare un piccolo aiuto ad uno solo quando sarebbe centinaia, migliaia ad aver bisogno?

Perché non darglielo e dare un po’ di sollievo almeno a lui? E’ un dubbio che mi attanaglia per tutto il viaggio…

Dove sarà ora? Dove passerà le notti? Ha ancora una famiglia? Per me resterà un simbolo delle ingiustizie che, tremende, riducono troppo spesso questo mondo ad un luogo di lacrime e dolore.

E davvero non mi interessa se sembrano frasi retoriche.

 

Domenica 30 giugno 2019

 

La domenica è il gran giorno della professione ma prima andiamo a conoscere la realtà di Panzi, l’ultima parrocchia aperta dai Saveriani. E’ retta da padre Nicola e da padre Roberto “Baggio”. Per arrivarci saliamo sulle colline e scopriamo una nuova professione: l’omino spartitraffico. Infatti ci si para davanti un ometto che con un gilet fosforescente (come quelli che abbiamo nelle nostra auto), inizia a correre davanti a noi facendo spostare persone, moto e auto. Io credo che il suo intervento sia sostanzialmente inutile perché le persone si sarebbero comunque spostate, ma la scena è così insolita e surreale che volentieri diamo un piccolo premio in denaro al “nostro”.

 

La parrocchia di Panzi ci impressiona per l’organizzazione e l’attivismo. Padre Nicola ci presenta a centinaia, forse migliaia di bambini e ragazzi riuniti in chiesa per le attività delle “colonie des vacances” (il nostro grest), ci parla di come sia stata costruita la chiesa (in tempi giapponesi), di come siano riusciti a trovare un pozzo di acqua purissima da cui si serve anche il quartiere. Prima di arrivare al campo da calcio e alle altre strutture sportive padre Nicola ci fa notare un grande cancello. E’ uno degli ingressi della “Cité de la joie” il centro che accoglie circa novanta donne vittime di violenza per il loro recupero fisico e psicologico. E’ stato fondato dall’Unicef e dalla fondazione Panzi voluta dal premio Nobel per la pace Denis Mukwege. Al nuovo campo troviamo padre Roberto ad arbitrare una partita di calcio di un mega torneo di ragazzini. Bellissima la danza di una squadra prima dell’inizio nel nuovo campo. Con la maglia del Milan, di cui è tifosissimo, dirige i ragazzi con piglio deciso. Viene a salutarci. Finiamo il giro del centro sportivo che ha anche un bel campo da basket e tutt’intorno le immagini dipinte dei campioni dell’NBA.

Ripartiamo con Kasangangio verso lo studentato. Passando ci fa notare il “Panzi hospital” centro principale dell’attività di Mukwege, detto “il medico ripara donne”, per la sua attività chirurgica a favore delle donne vittime di stupro.

Allo studentato di Vamaro conosciamo alcuni padri italiani fra cui padre Pier. Nel giardino interno vi è uno splendido esemplare di gru coronata, uno degli

animali più eleganti del mondo.

Andiamo a visitare il piccolo cimitero dove sono seppelliti Saveriani e Saveriane missionari nella zona. Qui sono sepolte anche le tre sorelle, Olga, Bernadetta e Lucia, assassinate in Burundi nel 2014.

E’ il preludio delle forti emozioni che proveremo là dove questo assassinio è avvenuto.

Finalmente arriviamo a Chai per le professione di Emerence e Noela che entrano definitivamente nelle “Piccole figlie”. Nella grande chiesa (semicircolare come quasi tutte le chiese che abbiamo visitato) si stipa moltissima gente pronta a pregare anche cantando e ballando. La celebrazione, guidata dal vicario generale della diocesi, è bellissima ma di una lunghezza storica, persino madre Meuccia, l’organizzatrice, alla fine dirà che quattro ore sono troppe!!! I ragazzi (Matteo, Luca, Emanuele e Giovanni) infatti non resistono, ad un certo punto fanno una pausa e girano per la parrocchia: scopriranno un bellissimo auditorium ed un passaggio per un fantastico panorama sul fiume Ruzizi che segna il confine con il Ruanda.

Dopo la funzione nel salone della parrocchia inizia la grande festa. Cibo locale, discorsi e balli. La cosa più bella è l’offerta dei doni alle due neo-professe. A turno chi li vuole consegnare, si mette in fila e lo fa ballando. E questo sia i ragazzini che le persone anziane. Un esempio molto significativo della cultura africana. Alla fine, verso sera sia io che Serena siamo oggetto di “discrete” attenzioni da parte di persone presenti alla festa, forse degli “imbucati”. Temo anche, però, che la birra offerta alla festa non sia del tutto “innocente” in questo inaspettato successo da “playboy”.

Al ritorno alla casa dei padri, Serena mi chiama nel parco da dove si vede una gran parte del lago. Scopriamo un momento fra i più emozionanti del nostro viaggio.

Sul lago, reso rosa dal tramonto, sentiamo canti e richiami, sono i pescatori che verso l’imbrunire mettono in acqua le loro grandi barche con lunghissimi bilancieri sia a prora che a poppa. Sono legate in gruppi di tre e i pescatori si chiamano e cantano, probabilmente per salutarsi, passarsi informazioni o propiziarsi una buona pesca. Più tardi, quando tutto è nel buio più assoluto, è la presenza delle lampade che portano (forse perché la luce attira i pesci) che ti informa che passeranno tutta la notte a catturare quei pesciolini che si trovano venduti dappertutto sia a Goma che a Bukavu.

 

Bukavu la rossa

Se Goma è nera Bukavu è rossa per la terra che la caratterizza, la terra che ti aspetti in Africa. E’ una città verticale con le sue casupole arrampicate sulle colline alle spalle del lago. Serena la descrive bene in uno dei suoi messaggi WhatsApp: “…la prima cosa che colpisce arrivando al porto è il colore della terra che è rossa e non nera come a Goma. Quartieri di migliaia di case di legno, di latta o di fango divise tra loro da stretti sentieri di terra e sabbia rossa, popolano le colline che formano la

città e che, nei giorni di pioggia, si trasformano in fiumi di fango trascinando con se le case. Mi hanno ricordato le favelas di Salvador de Bahia. A prima vista sono carine, a volte colorate, con i tetti spioventi in stile belga ma guardate bene ti rendi conto che in quei pochi metri quadrati senz’acqua e luce ci vivono adulti e bambini, tanti bambini, in situazioni di promiscuità, senza sicurezza per nessuno. L’unico riferimento è la parrocchia…”

 

Lunedì 1 luglio 2019

 

La mattina dopo chiediamo di tornare a Panzi perché con la sua organizzazione ci aveva colpito. Questa volta ci accoglie padre Roberto. Insieme ad una ragazza responsabile dell’organizzazione, ci parla delle tante attività che fanno in parrocchia.

Mi colpiscono soprattutto due iniziative: quella dell’agricoltura urbana fatta da contenitori in plastica da appendere alle case per coltivare all’interno dei quartieri e l’iniziativa di coinvolgere i ragazzi del “grest” nella raccolta di sacchi di plastica da riciclare. Mi sembrano iniziative molto in linea con lo spirito della “Laudato si” di papa Francesco e con le più avanzate teorie di gestione delle aree urbane, aree che stanno crescendo sempre più.

Sarebbe bello riuscire, come laicato, a proporre qualche altra iniziativa.

Nel pomeriggio chiediamo di riposare un po’. Siamo stanchi dopo giorni di scoperte ed emozioni. Soprattutto i ragazzi. Il giardino dei padri, la vista del lago, il passaggio degli uccelli acquatici sono l’ideale per ricaricare un po’ le pile. Io e Serena ne approfittiamo per fare un po’ il punto di questi giorni trascorsi. Io sono un po’ bloccato, penso che mi ci vorrà del tempo per assimilare questa esperienza; Serena invece non vorrebbe più ripartire. Cerchiamo di fare amicizia con la scimmia dandole da mangiare ma è piuttosto altezzosa e o rifiuta il cibo offerto, oppure, come nel caso della banana, ne sceglie in modo molto preciso le parti gradite. In basso, quasi a livello del lago, scopriamo che i padri allevano anche un’antilope. Insomma un po’ di fauna africana la vediamo ma purtroppo in cattività.

La sera ci raggiunge a cena padre Pier. Sollecitato da Paolo racconta la sua esperienza di missionario. E’ ancora abbastanza giovane ed ha un aspetto angelico e delicato, anche la voce è pacata e mai con toni alti. Non ti aspetti che dietro tanta dolcezza si celi un uomo con tale forza da poter sopportare enormi tragedie. Ci racconta, infatti, di essere precipitato con un aereo, affondato con un traghetto ma soprattutto rapito dai paramilitari ruandesi durante la seconda guerra del Congo. Ha rischiato di essere ammazzato per salvare duecentocinquanta civili, soprattutto donne e bambini, che aveva tenuto nascosti in parrocchia. Si è salvato ma i suoiprotetti sono stati tutti uccisi, vittime anch’essi di una guerra ferocissima ed insensata.

 

Salutiamo Matteo e Luca che l’indomani ritornano a Goma per vedere come sono venuti i campioni dei vari oggetti che hanno ordinati all’atelier “Anna Micheli” e alla “Maison Cana”. Sperano anche di riuscire ad avvicinare il vulcano per qualche foto. Sono stati davvero una bella presenza. Sono persone molto lontane dallo stereotipo dello sportivo bello, atletico e dedito solo a far soldi, divertirsi e disprezzare in fondo chi fa una vita normale.

 

 

L’abbigliamento dei congolesi: le magliette delle squadre di calcio e i vestiti delle ricorrenze

 

Nell’abbigliamento dei congolesi spiccano due aspetti significativi. Uno, comune a tutti i paesi in via di sviluppo, sono le magliette delle squadre di calcio che indossano molti ragazzi. E’ probabilmente un orgoglio portare la maglia di Messi, Ronaldo o Neymar junior. Mi consola che fra queste vi sono ancora molte magliette del Milan…insomma almeno in Congo il passato conta ancora!

 Anche qui il calcio è molto seguito. Purtroppo anche gli aspetti più discutibili come il fiorire di negozietti per le scommesse.

Se le magliette delle squadre vengono portate anche in Italia, nessuna signora delle nostre parrocchie indosserebbe un vestito fatto con una stoffa che celebra un congresso eucaristico o una festa mariana. Il problema è che, dato che queste stoffe sono stampate con immagini ricorrenti, non si sa in che parti del corpo finisca l’immagine dell’Immacolata o del Papa e l’effetto, devo dire, è per noi un tantino esilarante…

 

 Martedì 2 luglio 2019

 

Nei giorni precedenti da padre Franco scopriamo che i Saveriani di Bukavu hanno una fattoria. Da buon agronomo fremo per poterla vedere. E’ un po’ distante (circa due ore di strada bianca o meglio rossa!) ma come la goccia che scava la roccia convinco tutti ad andare. Ci accompagna Francesco un volontario laico di origini venete che da tempo collabora con i Saveriani. Partiamo con la Toyota dei padri per un viaggio faticoso ma fantastico.

 

Alla periferia di Bukavu scopriamo come si fa la ghiaia in Congo: decine di ragazzi seduti su mucchi di pietre, li spaccano a mano, con il martello, fini a renderle piccole pietruzze utili per i lavori edili. Superata la città e la sua mega fabbrica di birra, iniziamo a salire, si, perché dai 1500 m di Bukavu saliamo fini agli oltre 2500 metri della fattoria. Dopo pochi tornanti, con grandiosa vista sul lago, Francesco ci fa

 

notare delle case somiglianti a piccole case a schiera; erano le case dei neri che, durante la dominazione belga, non potevano vivere in città insieme ai bianchi ed erano relegati in questo ghetto. Proseguendo incontriamo piccoli villaggi e la strada si fa sempre più dissestata, totalmente sterrata. Proseguendo le case sono più rade e spesso sono delle semplici capanne di legno o paglia. Sulla strada la presenza più numerosa è quella delle donne che cariche di carbone si incamminano verso la città per farne un piccolo commercio. Noto che i tronchi di piante simili ai nostri pini sono intaccati con tagli d’accetta. Francesco mi spiega che la gente prende delle scaglie di legno perché, ricche di resina, sono ottime per accendere il fuoco. Saliamo sempre più in alto, il panorama si fa largo, le coltivazioni, i piccoli tratti di foreste lasciano il posto ad estesi pascoli.

 

Dopo circa due ore di scossoni, arriviamo a quello che era il centro più importante della fattoria dove c’erano le stalle e soprattutto un moderno caseificio.

La fattoria prima della guerra allevava oltre diecimila capi e dava da lavorare ad oltre trecento persone. I proventi di questa attività servivano per aiutare i bambini buakì, i bambini denutriti. La guerra ha spazzato via quasi tutto! I Ruandesi hanno rubato i capi e ucciso molte persone. Parliamo con due anziani che fra i responsabili nel tempo andato e ci raccontano di come era la fattoria in passato.

Ci sono piante fiorite bellissime e noto, vicino ad un fabbricato un pesco; nel clima tropicale soffre e contemporaneamente porta fiori e frutti.

Visitiamo l’ex-caseficio, è in totale abbandono e tutte le attrezzature sono state rubate. E’ difficile uno sviluppo in queste condizioni.

Con un breve tragitto raggiungiamo la piccola azienda attualmente in attività. Alleva alcune decine di capi bovini e caprini, dà da lavorare ad una famiglia e produce formaggio. Francesco, che passa diversi giorni la settimana qui, si è costruito una specie di chalet molto accogliente dotato di tutti i servizi. Ortensie giganti ed altri fiori ne ingentiliscono l’ingresso. Da buoni italiani ci inventiamo una pasta e mangiamo il formaggio della fattoria. A metà del pranzo accuso un po’ di mal

di stomaco che attribuisco alla fretta di mangiare per la grande fame.

Francesco scopre che i ragazzi hanno l’altimetro nel cellulare e ci chiede di fare una misurazione in un punto nella valletta sottostante. Accompagnati dal contadino, scendiamo più in basso in mezzo a vegetazione infestante; non riconosco nessuna pianta ad eccezione di rovi e ailanti. Sono stanco, perdo spesso l’equilibrio finisco anche con un piede nel fango e divengo oggetto di bonaria presa in giro da parte dei miei figli. Comunque c’è qualcosa che non va, faccio fatica a risalire.

Dopo con Serena e i ragazzi facciamo una passeggiata lungo la strada che parte dalla fattoria fino ad una croce fra i prati. Il panorama è bellissimo i monti molto verdi e a me ricordano le colline piacentine, solo che qui non siamo a mille metri ma ad altezze dolomitiche. Non ce ne rendiamo conto perché tutto è dolce coperto di prati, nessuna asperità. Sullo sfondo, lontani ma non troppo, si vedono i monti Virunga, famosi per i gorilla di montagna.

Torniamo dai padri e riesco ad esaudire un altro dei desideri di questi giorni: visitare il “Museo del Kivu”, una stupenda mostra di oggetti della tradizione congolese raccolti da padre Tam in tanti anni di attività presso le tribù. Una delle quali lo ha nominato Mwami (re), unico bianco con questo titolo.

A proposito di tribù scopriamo che in Congo ne esistono più di cento solo fra le principali; una diversità etnica e culturale che non può non avere effetti sulle divisioni e le difficoltà del paese

Domani partiamo verso il Burundi, salutiamo i padri, padre Franco, padre Pastor, Serge che sarà ordinato ad agosto (e che avevamo già conosciuto a Parma) e tutti gli altri. Non vediamo più padre Deo Gratias, il parroco di Ndhoso, che da Goma ci ha seguito fin qui per un periodo di riposo. Appare e scompare come un fantasma…

Ci spiace abbandonare il Congo, la voglia sarebbe di fermarsi ancora approfondire le cose, conoscere meglio questa popolazione tanto mite e dolce e tanto feroce nella guerra, nella violenza alle donne; capire meglio i meccanismi che la mantengono così povera e disperata, capire le persone…ma l’incontro con i laici ci attende, Il Burundi ci attende, perciò la curiosità e l’entusiasmo prendono il sopravvento: siamo pronti a conoscere una nuova realtà!

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