Roberta ,laica saveriana del gruppo di Ancona,ci racconta le impressioni e le immagini che le sono rimaste nel cuore dopo il suo viaggio
Sono passati ormai due mesi dal mio viaggio in Marocco con gli uffici missionari della regione Marche, e se pensavo che questo tempo sarebbe stato utile a riordinare le idee e le sensazioni di un viaggio veramente significativo, in realtà scopro accingendomi a scrivere qualche impressione, che le domande si sono moltiplicate e il tempo della rielaborazione non è ancora terminato.
Provo a trasmettere alcune immagini, di un viaggio molto ricco, denso di incontri e testimonianze vive. Lo stato d’animo con cui sono partita era di grande curiosità suscitata in parte dai racconti dei fratelli del laicato che nell’ultimo anno hanno compiuto viaggi esplorativi con la prospettiva di collaborare ad aprire una nuova missione saveriana.
La zona in cui sono stata è più a sud ed appartiene ad un’altra diocesi, retta dal neo cardinale di Rabat, monsignor Cristobal Lopez Romero, che nei primissimi giorni del nostro soggiorno ci ha accolti e ci ha raccontato un po’ della sua sposa, come lui la chiama, la chiesa del Marocco. E’ stato un incontro che ha dato il la a tutto il viaggio e che ci ha aiutato a comprendere gli incontri successivi che abbiamo fatto. La chiesa marocchina è una chiesa che nei numeri è insignificante, ed è formata principalmente da studenti sub sahariani che vengono per qualche anno a studiare in Marocco grazie alle borse di studio elargite dal paese, una chiesa fluida, che cambia ogni pochi anni la quasi totalità dei suoi componenti: eppure i missionari e i preti (soprattutto fidei donum) che vi operano, sono riusciti ad intessere una rete di relazioni e in molti casi di amicizia con la popolazione locale, tali da rendere l’azione della chiesa significativa.
Monsignor Romero più volte sottolinea questo aspetto, quello di una chiesa che vuole essere lievito, sale e luce per chi vuole, e che cerca qui ed ora di costruire il regno di Dio. Come? Non attraverso conversioni visibili( i battesimi sono inesistenti, la società non è ancora pronta per un musulmano che si converte pubblicamente), ma attraverso le conversioni del cuore, quelle che avvengono negli uomini che attraverso l’incontro e la frequentazione coi cristiani cambiano atteggiamento nei confronti delle donne, riflettono sull’educazione da dare ai propri figli, imparano ad accogliere gli immigrati che popolano anche le loro città…il lavoro dei preti non è per i cristiani, o lo è in minima parte. Non ci sono grandi lavori da fare, catechesi, gruppi, quello che caratterizza le nostre parrocchie insomma.
Qui si incarna la parola di Papa Francesco che invita la Chiesa a non essere autoreferenziale: il lavoro da fare è tutto in uscita, ed è per la costruzione del regno di Dio, attraverso la promozione della pace, della fratellanza, della giustizia e della libertà. Si parla, ci si confronta con i fratelli musulmani, che non sono antagonisti ma col- laboratori in questa ricerca del regno. Non è questo il nome che danno al lavoro che fanno insieme ai cristiani ma questo poco importa quando gli obiettivi diventano comuni, in nome del Vangelo, o in nome di Allah. E’ un problema essere in pochi e non battezzare? È questo che Dio ci chiederà l’ultimo giorno? O piuttosto ci chiederà se siamo stati veramente sale che dà sapore e lievito che fa crescere? Non sappiamo già la risposta alle domande che ci farà? Non ci ha detto lui stesso che ci chiederà chi abbiamo vestito e a chi abbiamo dato da mangiare? È questo che la chiesa guidata da monsignor Romero sta cercando di fare, grazie ai pochi ma tenaci religiosi, innamorati di Cristo, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere durante l’intera setti-mana.
Ecco allora che salutato il cardinale abbiamo continuato il nostro giro nella capitale andando a trovare i missionari francescani e le sorelle francescane, che sono sul territorio da 800 anni. Le sorelle in particolare mi hanno colpito, per la dedizione mostrata verso un popolo che è diventato il loro popolo, e che hanno servito occupandosi in particolare di infanzia abbandonata. I musulmani le venerano come delle sante, e la loro casa è aperta per il re che a volte viene a trovarle, come fa da quando bambino frequentava la loro casa mischiandosi agli orfani, così come per il povero che non ha nessuno ma che sa di poter trovare un rifugio sicuro.
La tappa successiva, a Meknès, ci ha fatto conoscere un Marocco più rurale, meno occidentalizzato, dove opera una piccola comunità di francescani, tra cui un italiano, padre Natale. Anche qui abbiamo nella loro testimonianza rivissuto le parole di monsignor Cristobal. Ci hanno raccontato di una missione costruita su relazioni amicali, di grande stima reciproca con i locali; in particolare mi ha colpito il loro sottolineare l’importanza di mostrarsi come uomini di fede. Questo non allontana le persone ma è motivo di prima relazione. I musulmani infatti sono uomini di profonda fede e di preghiera, e accolgono con favore persone che pur professando una diversa fede religiosa, pregano e mettono Dio al centro. Quello che i musulmani temono, perché la paura non sta solo da una parte, la nostra, è una società come quella occidentale che è evoluta, aperta al moderno, ricca, ma che ha perso Dio. “Ave- te perso i vostri valori, che ve ne fate delle vostre ricchezze?” dicono. Per cena ci conducono a conoscere una loro amica musulmana, più francescana dei francescani , così la definiscono. Si chiama Bouchra. E’ una donna straordinaria, che farebbe scalpore anche in Italia, ma che in un paese ancora fortemente maschilista come il Marocco, è deflagrante. Dopo avere conosciuto i francescani e avere visto cosa facevano per la sua gente, loro che venivano da altri paesi, ha sentito di essere chiamata anche lei a fare qualcosa. Ha cominciato ad andare di notte travestita da uomo a raccattare dalle strade bambini e ragazzi, a cercare di offrire loro una alternativa alla droga e alla prostituzione, ha fon-dato un´associazione, ospita donne che vanno da lei per imparare un mestiere e tra le altre cose sostiene le sue attività offrendo servizi di catering e cene a casa sua. Il cibo che ci offre è in assoluto il più buono di tutto il viaggio, sa di casa e cura e amicizia. Il viaggio si conclude a Midelt, vicino alle montagne dell’Atlante, nel convento di Nostra Sgnora dell’Atlas.
Qui vive una comunità di monaci trappisti che accoglie anche l’ultimo superstite della strage di Thiberine, Frere Jean Pierre. I tempi si dilatano, abbiamo tutti bisogno di meditare e riflettere sulle tante cose viste e sentite. Il monastero è il luogo ideale, e la giornata scandita dalla liturgia delle ore ci aiuta.
Il priore ci racconta di quella che è la loro missione, anche qui scopriamo che a farla da padrone sono le relazioni con i locali, di amicizia, vicinanza nelle gioie e nei dolori. La comunità si sente erede e custode del messaggio dei martiri monaci loro fratelli, e continua sulla stessa strada di dialogo e condivisione con la gente. La testimonianza dei monaci è stata il compendio di tutto il viaggio, e come ha detto un mio compagno di viaggio, non sarà possibile raccontarla nella sua profondità a chi incontreremo in Italia, ma se sapremo coltivare nel nostro cuore le parole ascoltate,la nostra testimonianza parlerà in altro modo. Concludendo, la missione in Marocco fa parlare la vita, è all’apparenza silenziosa ma dirompente, come dovrebbe esse- re quella di ciascuno di noi, che siamo chiamati anche qui e ora a essere sale della terra, luce che illumina, lievito che fa crescere la massa.
Il resto, che è ancora molto, ve lo racconto la prossima volta che ci vediamo!
Roberta