Lo scorso 10 febbraio, noi laici del gruppo di Salerno, ci siamo ritrovati alle ore 9 in un posto diverso dalla casa Saveriana; ci siamo dati appuntamento davanti la casa circondariale. Un modo differente di cominciare la giornata di formazione. Non nascondo una sorta di disagio all’idea di varcare la soglia del carcere, probabilmente dovuto alla paura di una esperienza nuova.
La scelta di celebrare l’Eucaristia domenicale insieme ai detenuti è stata dettata dal tema della giornata di formazione: “la testimonianza della carità come espressione ed annuncio della fede”.
La prima cosa che cattura l’attenzione sono le varie forme di sicurezza, dal controllo dei documenti, al disfarsi dei propri oggetti personali (magari fossimo costretti più spesso a lasciare i nostri cellulari!), al camminare tutti insieme e sotto vigilanza, alla spiegazione di norme comportamentali; il pensiero che ne consegue e che in quel luogo c’è qualcosa, anzi qualcuno, di pericoloso da cui ben guardarsi.
Mentre siamo in fila per entrare, esce un uomo ammanettato e tenuto da alcuni agenti che viene fatto entrare in un’automobile; primo incontro con l’umanità. Non sappiamo chi fosse quell’uomo e le ragioni del suo stare lì, ma il suo sguardo, misto di imbarazzo e vergogna, parlava, mostrava il suo essere un uomo come noi.
Una volta entrati gli agenti ci hanno condotto fino alla cappella e una mezz’ora dopo, a scaglioni, sono arrivati una quarantina di detenuti. La cosa che più mi ha colpito è stata la familiarità dei loro volti, sembravano persone conosciute da sempre eppure era la prima volta che li incontravo. Quella sensazione di disagio provata all’idea di entrare in carcere è sparita incontrando il volto dell’altro.
Determinante, per la buona animazione della celebrazione, è stata la capacità di padre Carlo Salvadori nel coinvolgerci e nel farci conoscere e riconoscere come fratelli. Oltre alla presentazione di ciascuno attraverso il proprio nome – ovvero attraverso la propria unicitàdurante lo scambio della pace ha fatto sì che l’assemblea diventasse dinamica e, nel pronunciare le parole “ho bisogno di te” e “anche io ho bisogno di te”, sono nati abbracci e sorrisi tra sconosciuti che si sono fatti in maniera equivalente prossimi.
Durante l’omelia padre Carlo ha chiesto loro cos’è la libertà, proprio a loro che sono privati della libertà legale. In molti hanno risposto che la libertà è avere fede e seguire la volontà del Signore.
Credo che molti di noi abbiano pensato alle varie prigioni in cui troppo spesso l’uomo si incarcera e, personalmente, mi è venuto in mente quel grande atto d’amore che il Signore ci ha fatto e continua a farci: lasciarci liberi e perdonarci e riaccoglierci ogni volta.
Tornati in casa Saveriana, abbiamo ascoltato la testimonianza di un volontario, di esperienza ventennale, del carcere. Sono
emerse alcune problematiche: il sovraffollamento, la giovane età, i tempi iperbiblici del corso della giustizia, la tossicodipendenza, il rapporto guardie/detenuti.
In merito alle guardie mi viene in mente di invitarci a pregare di più per chi fa un lavoro così difficile e delicato; pregare affinché anche loro abbiano dei “volontari” che li sostengano, li ascoltino e li aiutano ad essere prossimi nella rigidità che il loro ruolo esige.
Infine, come missionari siamo chiamati ad annunciare il Vangelo a tutti e a rivolgere il nostro sguardo soprattutto agli ultimi; sono fermamente convinta che esperienze di questo genere fortifichino la nostra risposta affermativa alla chiamata “Vieni e seguimi!”, ci mostrino ancora una volta il volto misericordioso del Padre, e ci ricordino che l’essere missionari comprende tutta la nostra vita.
“Ero in carcere e mi siete venuti a trovare”.
- Rosaria