“guida alla mostra”

Ecco l’introduzione alla mostra daggli appunti di Marta Chiaradonna:

PRESENTAZIONE: Chi siamo noi e la nostra urgenza nel trattare il tema

Parlare di INTERCULTURA è per noi una Missione fondamentale in questa particolare epoca storica in cui le nostre città sono abitate da una società multietnica e nelle quali si cerca di vivere, sopravvivere e convivere.
Al centro della nostra riflessione poniamo il valore dell’esistenza umana, la nostra vita, quella di tutti … delle umane genti.
Perché dire che la vita abbia un valore intrinseco non è scontato.

VIVERE SOPRAVVIVERE SOTTOVIVERE :EDGAR MORIN (a cura di Massimiliano d’Daiuto)

PRESENTAZIONE :

Viene presentato chi sono i Saveriani con un breve video. Breve commento di Marta Chiaradonna:

 

La mostra verrà presentata in modo diverso ai ragazzi più grandi e a quelli più piccoli come nelle osservazioni di Massimiliano :

Il Video di Bruno Bozzetto sulla “differenza”

ESSERE UNICO E SPECIALE :

ALIKE ;cortometraggio racconta come la vita travolge un padre nella monotonia e nella routine quotidiana, che con il tempo ingrigisce la sua vita e quella di suo figlio

il commento di Marta :

prima di trasferirsi al piano superiore è possibile  fare una dinamica basata sui Social :

TRASFERIMENTO AL PIANO SUPERIORE VERSO LA SALA DEI QUATTRO PERSONAGGI

intanto viene spiegato il significato dei “fogli”

La divisione della Sala :

SCHWEITZER

Tratto dall’intervista di Telediocesi

Dal promemoria preparato da Marrta :

SCHWEITZER: figura immensa, tuttavia poco ricordata, ma che ha dato un contributo fondamentale ai temi dell’etica e del rispetto della vita. La sua esistenza lo ha visto dedito ad impegni e scelte di elevato valore umano, sociale e culturale, quali la teologia, la musica, la medicina; ma anche alla riflessione sull’argomento a lui più caro dopo la dedizione all’umanità: la filosofia della civiltà. Egli comprese che l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza ) non poteva avvenire se non sacrificando la propria vita, nel corso della quale ne trasse l’amara constatazione di vivere “in un periodo di decadenza spirituale”, dove “la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento” ma anche la forza di combattere per far recuperare “dignità all’essere umano”. La crisi dell’Occidente, dei suoi valori e il vuoto di passioni che caratterizzano l’orizzonte di oggi, sono stati ampiamente anticipati da questo uomo che ha condiviso, in grandezza, il cammino di tolleranza, di non violenza e di inclusione di Gandhi, ricevendo nel 1953 il Premio Nobel per la Pace. A Lambaréné, nell’ospedale la lui costruito, regna ancora oggi la fratellanza e l’uguaglianza: persone di etnie, di religioni e di colore di pelle differenti convivono in armonia e questa forma di rispetto contempla anche animali, fiori e piante. Schweitzer crede nel potere educativo dell’esempio, ed è proprio nel suo ‘comportamento’ e nelle sue parole che trasmette l’insegnamento più grande.
Nota Biografica
Albert Schweitzer nato a Kayserberg il 14 gennaio 1875 in Alsazia (all’epoca tedesca) e morto il 4 settembre del 1965 a Lambaréné nel Gabon, ex colonia francese, è stato una delle più grandi personalità del XX secolo. Grande teologo e pastore luterano, musicista di fama mondiale, lasciò la cattedra di teologia a Strasburgo e la sua brillante carriera di organista, per prestare, accompagnato dalla moglie Helen Bresslau, il suo servizio ai bisognosi come medico e missionario a Lambaréné nell’allora Africa coloniale francese. Infatti, dopo aver letto in un bollettino della Società missionaria di Parigi della mancanza di personale specializzato per svolgere il lavoro in una missione in Gabon, zona settentrionale dell’allora Congo francese, Albert si convinse che era giunto il momento concretizzare il suo impegno di vita cristiano. Un anno dopo, all’età di trent’anni, si iscrisse a Medicina, ottenendo nel 1911 (a trentotto anni) la laurea in medicina con specializzazione in malattie tropicali. Internato in un campo di prigionia in Francia dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale in quanto tedesco, fu liberato per uno scambio di prigionieri nel 1919. Da quell’anno si dedicò a tempo pieno alla ricostruzione, grazie ai proventi della sua attività di scrittore e musicista, del proprio ospedale di Lambaréné. Si susseguirono quindi fino al 1959 ben 12 soggiorni in Africa intervallati da viaggi, conferenze, concerti in tutto il mondo, necessari per reperire fondi e finanziare la sua attività benefica. Nel 1953 gli venne conferito il Premio Nobel per la Pace, con i proventi del quale diede vita al centro per lebbrosi Village Lumiere, non lontano dal suo ospedale. Gli ultimi anni trascorsi in Europa, prima del suo rientro in Africa, furono impegnati in una convinta campagna contro la proliferazione delle armi nucleari, che lo vide al fianco di Albert Einstein e altri insigni intellettuali europei. Trasferitosi definitivamente a Lambaréné nel 1959 dopo la morte della moglie, Albert Schweitzer trascorse lì gli ultimi anni della sua lunga esistenza. Morì a Lambaréné all’età di novant’anni nel 1965, circondato dall’affetto e dalla riconoscenza dei suoi malati e collaboratori africani.
La R associata a Schweitzer è RISPETTO per ogni forma d vita, anche la più piccola.
RISPETTO
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Rispettare la vita è avere per ogni vita lo stesso rispetto che bisogna avere per la propria. Rispettare la vita è sperimentare la vita altrui nella nostra. E’ valutare sempre e in ogni caso positivamente la salvaguardia della vita, la sua promozione ed il suo sviluppo portato al più alto grado; è, al contrario, valutare negativamente in ogni circostanza tutto ciò che distrugge la vita, che la danneggia o che ne impedisce lo sviluppo. Rispettare la vita è superare l’estraneità verso tutti gli altri esseri viventi e condividere la vita e la sofferenza di ognuno. Rispettare la vita obbliga tutti, quale sia la loro condizione di vita, ad occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani e delle sorti della vita che si muove intorno a loro, donando se stessi, come esseri umani, a tutte le creature che hanno bisogno di un essere umano. Rispettare la vita non permette a nessuno di vivere solo per sè. A tutti chiede di dedicare una parte della propria vita al prossimo. Rispettare la vita vuol dire dimostrare per essa amore, dedizione, compartecipazione, slancio verso la gioia; vuol dire liberarsi da uno stile di vita amorfo, estraneo a tutto ciò che ci circonda, o peggio ancora indifferente e insensibile.
L’IMPEGNO CONTRO LE ARMI NUCLEARI
Tra Albert Schweitzer e Albert Einstein vi furono soltanto pochi incontri, e anche scambi epistolari, eppure «i due grandi Albert» del xx secolo, condivisero con intensa passione alcuni sentimenti profondi, ed ebbero sempre la consapevolezza che fra loro esistesse un rapporto speciale. Sapevano, sentivano, di essere uniti da una comune visione della sorte dell’umanità, e in modo tutto speciale da una comune consapevolezza di quanto precaria fosse divenuta la condizione umana per effetto dei progressi della scienza, e del dovere che su di loro ricadeva di «dare l’allarme», con tutta la forza e la credibilità che su loro ricadeva, come grandi saggi del loro tempo.
Entrambi si sono trovati a vivere un’epoca di grandi rivolgimenti e trasformazioni storiche, culturali e sociali. Entrambi, ciascuno nel proprio ambito, hanno rivoluzionato il comune modo di pensare sino ad allora dominante. Entrambi, nati e cresciuti in Germania, hanno vissuto lontano (l’uno in Africa, l’altro in America) dalla loro terra natale compiendo innumerevoli viaggi, ma sentendosi sempre cittadini del mondo. Entrambi hanno posto al centro della loro opera l’essere umano nella sua libertà e dignità, preoccupandosi però, al tempo stesso, del mondo non umano e non prodotto dall’essere umano, entrambi hanno messo in guardia i contemporanei dai rischi e dai risvolti negativi di un cieco e incondizionato progresso scientifico e tecnologico che porta a una situazione di aridità morale e disumanizzazione.
La scienza, con i suoi progressi nel campo della fisica nucleare, progressi di cui lo stesso Einstein si sentiva, sia pure ingiustamente, responsabile, aveva messo nella mano degli esseri umani una potenza distruttiva che non aveva precedenti, che minacciava la sopravvivenza stessa dell’umanità. Sapevano anche, con angosciosa certezza, che ai progressi della scienza non aveva corrisposto un eguale progresso della cultura e dell’etica. I tremendi moniti dei «due Albert» sono validi oggi forse più di quanto fossero quando venivano pronunciati. Un messaggio che è peraltro di allarmante attualità e al quale vorremmo che tutti i governanti, e tutti i popoli, prestassero ascolto.
Così Schweitzer scriveva alla segretaria di Einstein, Helene Dukas, il18 maggio 1957 (Einstein era morto 2 anni prima):
“ … Eravamo concordi nel sostenere l’ideale dell’umanità: lui dal punto di vista della scienza della natura, io dalla parte della filosofia, e per questo ci siamo sentiti, nei nostri tempi, come in reciproca corrispondenza in un modo singolare. Anche l’opinione pubblica ha avvertito questo. A livello spirituale eravamo fratelli. E ci siamo sentiti ancora più vicini. nel condividere la paura per il futuro dell’umanità. Insieme abbiamo vissuto il pericolo causato dallo spaventoso potere della scissione dell’atomo. E quando, poche settimane fa, ho scritto il
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mio discorso contro gli esperimenti della bomba atomica, l’ho fatto a perenne memoria sua, quasi fosse un compito affidatomi”.
Frasi significative
Il mistero della vita
“L’uomo sente il bisogno di conoscere, cerca di comprendere tutto ciò che lo circonda, giunge agli estremi confini del sapere umano e. alla fine, sbatte sempre contro qualcosa di impenetrabile. Eppure ha un nome: si chiama vita! E’ così misteriosa che, rispetto ad essa, la differenza tra sapere e non sapere è del tutto relativa” (da A.Schweitzer, La melodia del rispetto della vita)
“Noi uomini possiamo tutto e non possiamo nulla: malgrado il nostro immenso sapere, siamo incapaci di creare la vita”. (da A.Schweitzer, La melodia del rispetto della vita)
“L’importante è che l’uomo non accetti semplicemente la sua esistenza come qualcosa di dato, ma la sperimenti come un mistero impenetrabile. L’affermazione della vita è l’atto spirituale per cui l’uomo cessa di vivere senza riflessione e comincia a considerare la vita con rispetto, per poter elevarla al suo vero valore. Affermare la vita significa approfondire, rendere più interiore ed esaltare la volontà di vivere” (da A.Schweitzer, La mia vita e il mio pensiero)
“Sembra quasi uno scherzo incitare gli uomini a qualcosa di così remoto come un ritorno alla riflessione sul significato della vita, proprio in un’epoca in cui le passioni e le follie collettive sono diventate così intense e si sono tanto estese, in cui la disoccupazione, la povertà, la fame sono fatti comuni, in cui il potere viene esercitato sui deboli senza il minimo pudore e nel modo più assurdo, in cui l’organizzazione della vita umana è, in tutti i sensi, fuori luogo. Soltanto quando gli uomini cominceranno a riflettere sul significato della vita, si formeranno le forze capaci di controbilanciare tutto questo caos e miseria”. (da A.Schweitzer, Agonia della civiltà)
Il principio fondamentale: il rispetto per la vita
“Risalivamo lentamente il fiume Ogoueé cercando con fatica i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Sedevo assorto sul ponte della chiatta, lambiccandomi il cervello alla ricerca del concetto elementare e universale dell’etica, che non avevo trovato in nessuna filosofia. La sera del terzo giorno, al tramonto, proprio mentre passavamo in mezzo ad un branco di ippopotami, mi balzò d’improvviso in mente, senza che me l’aspettassi, l’espressione rispetto per la vita. […] L’etica non è altro che rispetto per la vita: il rispetto per la vita mi procurò il principio fondamentale, il quale afferma che il BENE consiste nel conservare, assistere, migliorare la vita, mentre distruggere, nuocere e ostacolare la vita è il MALE” (da A.Schweitzer, Rispetto per la vita)
“Il bene consiste alla fin fine nell’elementare rispetto per quel mistero che chiamiamo vita; consiste nel rispetto per tutte le sue manifestazioni, dalle più piccole alle più grandi” (da A.Schweitzer, La melodia del rispetto della vita)
“La vita esige che noi avvertiamo la solidarietà con ogni vita in cui possiamo trovare rassomiglianza con la vita che è in noi” (da A.Schweitzer, Rispetto per la vita)
La forza della musica
“Chiunque abbia sentito almeno una volta nella vita la meravigliosa tranquillità espressa dalla musica di Bach, ha compreso il misterioso spirito che ha qui espresso al sua conoscenza e intuizione della vita attraverso il linguaggio del suono, e renderà così grazie a Bach, quel grazie che si rende soltanto alle grandi anime, a cui è concesso di riconciliare gli uomini con la vita e portare loro pace”
(da A.Schweitzer, Bach, il musicista e il poeta)
La relazione con l’altro è dono di sè e la sua forza è la gentilezza
“Dobbiamo rassegnarci al fatto di essere un segreto l’uno per l’altro. Conoscerci reciprocamente no significa conoscere tutt l’uno dell’altro, ma vuol dire reciproco affetto e fiducia. Non dobbiamo cercare di imporci, di fare breccia nella personalità altrui. Analizzare
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gli altri è un principio di violenza, perchè esiste un pudore dell’anima che si deve rispettare, come quello del corpo. E’ il dono di se stessi che risveglia le anime. Rendi partecipi quanto più puoi della tua vita interiore i tuoi compagni di viaggio e accogli come un dono prezioso tutto ciò che ti offriranno di loro stessi”. (da A.Schweitzer, Memorie di infanzia e giovinezza)

ETTY HILLESUM:

per avere un quadro semplice dlla vita di Etty suggerirei un video di Rai storia di 22 minuti     http://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma-puntate/etty-hillesum-la-vita/9499/default.aspx (ricordo che la RAI però chiede di scaricare dei codec)

ecco comunque la guida di Marta :

e i suoi appunti :

donna straordinaria e ordinaria, perché in realtà Etty non ha compiuto gesta platealmente eroiche, non aveva una vita in prima linea nella resistenza contro i nazisti, non ha salvato un solo ebreo dalla deportazione, non ha salvato neppure se stessa. Non arrendendosi mai all’odio cieco, sopravvivendo alla condizione atroce in cui era stata ingabbiata la sua esistenza, non troverà mai dentro di sé la motivazione sufficiente a inoculare il germe della violenza come risposta alla violenza, ma cercherà sempre, nella dimensione di un intimo silenzio, la capacità di trovare, anche nel dolore e nell’annichilimento, la forza per continuare a vedere crescere in lei il baluginio di una forza vitale, che la porterà a fare scelte ben precise, connotando l’autenticità della sua stessa esistenza.
Nota Biografica
Etty Hillesum, nacque a Middelburg in Olanda il 15 gennaio del 1914 da Levi Hillesum e Rebecca Bernstein entrambi di origine ebraica. Etty, diminutivo di Esther, fu una ragazza ricca di interessi e passioni. Si laureò ad Amsterdam in Giurisprudenza, ma poi intraprese lo studio delle Lingue, che potè completare solo in parte per via della guerra. Affascinata dalla lingua materna, il russo, lo studiò a fondo e cominciò un’intensa attività di traduttrice. Divenuta nel 1941 intima amica dello psicologo Julius Spier, si applicò grazie a lui allo studio della psicologia analitica e alla lettura della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. L’anno dopo, nel 1942, grazie all’interessamento di alcuni amici, Etty entrò a lavorare come dattilografa nel Consiglio Ebraico di Amsterdam. Con lo scoppio della guerra e l’inizio dei rastrellamenti, Etty mantenne un atteggiamento di forte coerenza. Pur potendo mettersi in salvo, grazie anche al suo ruolo e alle sue conoscenze in seno al Consiglio Ebraico, decise di non farlo per condividere in tutto e per tutto le sofferenze del suo popolo. Fu così internata con tutta la sua famiglia nel campo di transito di Westerbork, dove si adoperò come assistente sociale per i deportati. Il 7 settembre 1943 tutta la famiglia Hillesum, tranne Jaap Hillesum, uno dei due fratelli di Etty, venne inviata al campo di concentramento di Auschwitz, dove Etty morì insieme ai suoi familiari presumibilmente il 30 novembre di quell’anno. Nel 1945 morì infine anche il fratello Jaap.
La R associata ad Etty è RELAZIONE e RACCONTO
RELAZIONE
La vita diviene davvero bella quando la parte più profonda ed essenziale di noi, ascolta la parte più profonda ed essenziale dell’altro. E’ come una piccola ondata di calore, anche nei momenti più difficili; è un sentimento inspiegabile che non può fondarsi sulla realtà nella quale viviamo. Occorre ringraziare Dio per il fatto che tante persone spesso vengano da noi con il carico delle loro pene; ognuna porta con sè la sua storia ed essa è come raccontata dalla vita stessa; ognuna è come una casa con la porta a volte aperta, in cui poter entrare e girare per corridoi e stanze; ogni casa è arredata in modo diverso, ma nel fondo ha tante cose in comune alle altre. Vivere intensamente è rinnovarsi ogni giorno alla sorgente, che è la vita stessa, e trovare riposo poi nella preghiera. Una vita impoverita ed arida è una vita che non si rinnova alla sorgente: la sorgente che mette gli uomini in relazione l’uno con l’altro. Per vivere intensamente la relazione con l’altro occorre rompere i preconcetti che come inferriate imprigionano la vita: allora si libera la vera vita e la vera forza che è in noi, allora solo si avrà la forza di affrontare il dolore reale nella nostra vita e in quella degli uomini che sono a noi vicini.
RACCONTO
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La cosa più bella che l’uomo possa possedere, la gioia più grande è leggere la vita degli uomini come un racconto. E se c’è un dovere per alcuni, nello stato presente della loro vita, questo dovere è proprio quello di scrivere, annotare, conservare tutto quanto emerge dalle vite che si aprono davanti a loro. La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sè con tutto il suo carico di dolore e con tutte le sue difficoltà, e in tutto questo raccontare, scrivere, conservare è il mezzo migliore per farlo. Il Diario di Etty Hillesum abbraccia gli anni 1941-1942. E’ composto da otto quaderni scritti in una scrittura fitta e quasi indecifrabile. A convincere Etty a tenere questo diario fu probabilmente Julius Spier. Il diario comincia domenica 9 marzo 1941, ed esprime una vita interiore complessa e tutt’altro che tranquilla. La crescita spirituale, dovuta anche alla frequentazione di Spier e all’intensa lettura della Bibbia e degli amati scrittori russi, è chiaramente leggibile nel percorso di scrittura di Etty. Il diario venne interrotto dopo l’internamento di Etty a Westerbork. Fu allora che Etty, presagendo lucidamente il suo destino, affidò i suoi quaderni ad un’amica, Maria Tuinzing, con il compito di conservarli e di darli, a guerra finita, allo scrittore Klaas Smelik nella speranza di una loro pubblicazione. Molti editori dopo la guerra osservarono i manoscritti, ma nessuno prese la decisione di pubblicarli, a differenza di quanto era accaduto con il più celebre diario di Anna Frank. Solo nel 1981 i diari di Etty hanno trovato un coraggioso editore, J.G.Gaarlandt. Dal momento della pubblicazione le pagine dei diari di Etty sono state lette e tradotte in più lingue e ad oggi costituiscono un vero e proprio best seller.
Frasi significative
Il Senso della vita
Di nuovo arresti, terrore, campi. di concentramento, sequestri di padri sorelle e fratelli. Ci s’interroga sul senso della vita, ci si domanda se essa abbia ancora un senso: ma per questo bisogna vedersela esclusivamente con se stessi, e con Dio. Forse ogni vita ha il proprio senso, forse ci vuole una vita intera per riuscire a trovarlo. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
La fatica di vivere
A volte faccio così fatica a costruire l’intelaiatura della mia giornata – alzarmi, lavarmi, far ginnastica, mettermi delle calze senza buchi, apparecchiare la tavola, in breve “orientarmi” nella vita quotidiana -, che non mi rimane quasi più energia per altre cose. E se allora mi alzo per tempo come un qualunque cittadino, sono fiera di aver operato chissà quale miracolo. Eppure, fintanto che la disciplina interiore non è a posto, quella esteriore rimane importantissima per me. Se io dormo un’ora di più alla mattina questo non significa che io abbia dormito bene, ma che non so affrontare la vita e che faccio sciopero. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
Lasciarsi abbracciare dalla vita
Ecco la tua malattia: pretendi di rinchiudere la vita nelle tue formule, di abbracciare tutti i fenomeni della vita con la tua mente, invece di lasciarti abbracciare dalla vita. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
La vita è attraente
Sento allora di essere tutt’uno con la vita. Inoltre: che non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente e eterna – e se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente, e eterna corrente, che è appunto la vita. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
La vita è sempre un bene
La vita è difficile davvero, è una lotta di minuto in minuto (non esagerare, tesoro!), ma è una lotta invitante. Una volta io m’immaginavo un futuro caotico perché mi rifiutavo di vivere l’istante più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato. […] Una volta vivevo sempre come in una fase preparatoria, avevo la sensazione che ogni cosa che facevo non fosse ancora quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento; e se sapessi di
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dover morire domani direi: mi dispiace molto, ma così com’è stato, è stato un bene…La vita la conosciamo, abbiamo già vissuto tutto sia pure in spirito, non siamo più così spasmodicamente attaccati alla vita. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
La morte è parte della vita
Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita. E non viviamo ogni giorno una vita intera, e ha molta importanza se viviamo qualche giorno in più, o in meno? Io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno – ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine. (E.Hillesum, Lettere)
La vita è bella
Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave… Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi. Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile. (E.Hillesum, Diario 1941-1942)
Arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti ‘orrori’ e dire ugualmente che la vita è bella. Devo ogni volta esultare e acclamarti, mio Dio: ti sono così riconoscente perché mi hai concesso una vita simile. (E.Hillesum, Lettere)

LIA TIVOLI (personaggio del romanzo Quando dal cielo cadevano le stelle di Federica Pannocchia)

Ecco come lo racconta Rosina :

 

e gli appunti di Marta :

 

LIA TIVOLI (personaggio del romanzo Quando dal cielo cadevano le stelle di Federica Pannocchia): ama la vita nonostante tutto e tutti e non smette di sperare che un giorno la guerra finirà e tutti saranno liberi. Per LIA “sicuramente la vita non è in questa stanza”; sopravvive con la speranza di diventare grande insieme ai suoi fratelli e che un giorno le stelle saranno visibili soltanto in cielo e non più sulle uniformi a righe degli ebrei. La sua fiducia nella vita ha tutto da insegnare a chi, invece, si scoraggia nel quotidiano per delle banalità.
Nota Biografica
Lia Tivoli è una ragazzina di tredici anni protagonista del romanzo di Federica Pannocchia “Quando dal cielo cadevano le stelle”. È un’adolescente che si affaccia alla vita, ai sogni, all’amore ma la sua esistenza è diversa da quella delle sue coetanee ed è già segnata. Infatti Lia è ebrea, una ragazzina ebrea nel pieno della seconda guerra mondiale, durante le persecuzioni naziste. Nonostante ciò, Lia è piena di sogni e di allegria e nutre sempre la speranza che discriminazione e odio non possano prevalere sulla vita. Davanti all’inasprirsi delle persecuzioni, Lia e la sua famiglia devono nascondersi, sparire dal mondo: iniziano mesi e mesi di monotonia, silenzio, paura, ma Lia non vuole arrendersi. Accanto a lei ci sono i genitori, i fratelli e la nonna Miriam che la spinge a sperare, a non pensare che essere ebrea sia una colpa o una vergogna e a credere ad ogni costo che arriverà il giorno in cui potrà uscire e tornare ad ammirare le stelle. Il 16 ottobre 1943 però, il ghetto di Roma viene rastrellato dai tedeschi che hanno occupato la città, e per Lia e la sua famiglia inizia il viaggio verso il buio più profondo: il campo di sterminio di Auschwitz. Terrore, malattia, morte, punizioni, e dall’altra parte la sua determinazione a non mollare, una determinazione che la terrà aggrappata alla vita nonostante la fame, il freddo e le continue marce da un campo all’altro. Nel maggio 1945 le truppe americane liberano il campo di Mauthausen, l’ultimo ancora rimasto attivo, e ciò che vedono li lascia senza parole: tutto grida lo scempio
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della dignità umana e della vita. E Lia? Non ce l’ha fatta, è morta ad un passo dalla libertà per la sola colpa di essere ebrea.
La R associata a Lia è RESILIENZA e RAZZA
RESILIENZA
Resilienza è una parola che la moderna psicologia ha preso a prestito dalla tecnica delle costruzioni: con essa si indica, propriamente, la capacità di un materiale di subire urti senza rompersi. Resiliente è quindi colui che nella propria vita dimostra la capacità non solo di superare i traumi, ma di progettare positivamente il proprio futuro. Essere resilienti vuol dire trovare in se stessi, nelle relazioni umane, nei contesti di vita le motivazioni e la forza per superare le avversità. Essere resilienti è far interagire temperamento, intelligenza e creatività con il sostegno emotivo fornito dalle relazioni familiari e sociali, con la cultura, gli ideali e i valori della comunità di appartenenza.
Sono nata a Roma e ho tredici anni
Amo il cielo infinito, il sole, le stelle, la gente, la vita.
Ho lunghi capelli neri e ho cura del mio aspetto.
Ho molti sogni e progetti che sempre cerco di condividere con la mia famiglia e i miei amici.
Rispetto le persone e conservo sempre le buone maniere.
Ovvio e banale?
Provateci voi al mio posto:
braccata e costretta a nascondermi con i nazisti alle calcagna, fino all’arresto, e poi stipati come sardine in un carro bestiame fino ad Auschwitz in un incalzare di orrori.
“Oltre la guerra, oltre i nazisti, oltre l’orizzonte: nel pieno della vita coltivando sogni e progetti”.
Mi hanno marchiata con il numero 76903, per provare ad annullarmi, ma sono e resto
LIA TIVOLI.
RAZZA
Il 5 agosto 1938 appariva sotto le colonne della rivista La difesa della razza un manifesto firmato da dieci illustri scienziati dell’epoca, che dichiarava in 10 punti l’esistenza delle razze e la necessità di conservare la “razza pura” italiana. Gli ebrei, si dichiarava al punto 9, non appartenevano alla razza italiana. Al manifesto seguirono, tra il 1938 e il 1939, ben sette leggi che regolavano quanto teorizzato nel manifesto estendendolo normativamente a tutti i settori della società italiana, dalla scuola agli ambiti civile e militare, dal commercio alle professioni.
Oggi moltissimi scienziati concordano nell’affermare che le razze non esistono e che il concetto di razza è totalmente arbitrario, spesso indebitamente identificato con la determinazione di superiorità o inferiorità di un popolo. Superiorità o inferiorità, invece, possono solo essere valutazioni del grado di civiltà di un popolo o di una cultura e del suo rispetto verso le culture diverse.
Papà vado a scuola. No!
In biblioteca? No!
Posso giocare con il mio piccione viaggiatore? No!
Vado in cortile? No!
Accendere la radio? No! Tornare a casa? No!
…No! ….No!…No!
Papà per Lia Tivoli solo dei No?
Lia Tivoli? No! Da oggi ti chiami Azzurra Balti
Nota: Il 5 settembre 1938 entrano in vigore le leggi sulla “Difesa della Razza” che discriminano gli ebrei escludendoli progressivamente da ogni diritto fino alla loro eliminazione (soluzione finale)

TAGORE

Ancora un intervento di Marta :

 

a questo intervento vorrei aggiungere unaudio di Alessandra nipote di Padre Marino Rigon : “Dal Poeta alla Cura” (il titolo è mio)

e ancora la sche di Marta :

Appartenente ad una famiglia aristocratica, Rabindranath Tagore nacque a Calcutta il 6 maggio 1861. A 11 anni in compagnia del padre visitò per la prima volta Santiniketan, possedimento di famiglia e luogo di ritiro e spiritualità. Ben presto il giovane Tagore cominciò a comporre poesie e intraprese numerosi viaggi in Europa. Dopo una serie di gravi lutti familiari, Tagore compose le raccolte poetiche che gli diedero la fama maggiore in occidente: Luna crescente e Gitanjali, ovvero “Canti di offerta”. Le raccolte, tradotte in inglese dallo stesso Tagore, lo segnalarono prima nel mondo anglosassone poi in quello europeo, come una delle voci liriche più pure ed originali dell’epoca. Ciò portò l’Accademia delle Scienze di Svezia a conferirgli, primo tra gli scrittori non occidentali, il Premio Nobel per la letteratura nel 1913. Tra il 1912 e il 1914 tenne ad Harvard negli Usa le celebri conferenze che confluirono poi nel libro Sadhana. Ebbe inizio, proprio in questo periodo, il suo fecondo rapporto con Gandhi, appena tornato dal Sudafrica. Nel 1921 realizzò il suo sogno di trasformare la scuola di Santiniketan in una grande università. La Vishva Bharati University venne a costituire dal momento della sua fondazione il più grande impegno del poeta. In essa Tagore cercò di realizzare un programma di studi che integrasse armoniosamente discipline artistiche e tecniche, civiltà orientale e occidentale. Le lezioni erano tenute all’aria aperta dove uomo e natura potevano entrare in contatto e recuperare la loro armonia. Qui Tagore chiamò ad insegnare come ospiti alcuni tra i più importanti studiosi dell’epoca. Il motto che il poeta aveva scelto per la sua scuola suona: “pacifica, benefica, unica”. Vishva Bharati è ancora oggi basata sui capisaldi del pensiero del poeta: portare le differenti culture del mondo orientale ad una più intima relazione tra loro; cercare di realizzare un incontro tra il mondo orientale e quello occidentale; realizzare un centro in cui lo studio delle religioni e delle culture possa essere perseguito concretamente. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò attivamente alla pittura portando a termine a ben 2400 opere tra disegni e dipinti. Fu anche musicista: nel corso della sua vita Tagore compose più di 2000 canzoni che diedero vita a quello che gli indiani chiamarono Rabindra Sangeet. Non riuscì a vedere l’indipendenza del suo Paese, ma l’India indipendente scelse poi il testo di una sua canzone come proprio inno nazionale e lo stesso fece il Bangladesh. Tagore è l’unico poeta e musicista ad aver firmato ben tre inni nazionali, visto che anche l’inno dello Sri Lanka riproduce un suo testo bengalese poi tradotto in singalese da un suo studente.
La R associata è RAINBOW, REALIZZAZIONE e RIGON
RAINBOW
Vivere in pienezza e realizzare la propria esistenza implica la capacità di stringere in un legame armonico anima e corpo, cielo e terra, dolore e gioia, unità e molteplicità, Dio e uomo. L’arcobaleno è il simbolo di questo legame, è l’espressione più alta dell’armonia raggiunta. La nostra vita è intensa, profonda e ricca, quando tutto ciò che è aspro e discorde si fonde in un’unica armonia. Questa armonia è intreccio di colori ed accordo di suoni, è ricchezza nella molteplicità, è unità nella diversità. A volte la nostra ignoranza ci fa ritenere che il nostro io, come tale, sia reale ed abbia in se stesso il suo senso compiuto. In base a questo noi viviamo come se l’io fosse appunto lo scopo ultimo delle nostre esistenze. Chi si dedica con cura soltanto al piacere del proprio io è come chi accende il forno senza avere la pasta per il pane. L’arcobaleno è simbolo del raggiungimento della nostra più autentica natura, la vera profonda liberazione dalla chiusura dell’io che ci tiene prigionieri.
REALIZZAZIONE (SADHANA)
Sādhana (in antica lingua indiana) è propriamente “ciò che permette la realizzazione di qualcosa”. Nel mondo induista, buddista, giainista e sikh, sādhana è l’insieme di pratiche e rituali che eseguiti con regolarità e concentrazione permettono di raggiungere la liberazione dalla schiavitù dell’io. Sādhana è ciò che permette la realizzazione completa della nostra vita. Tra le pratiche rituali rientranti nella sādhana vi sono, oltre la ripetizione di formule (mantra), il dialogo, la meditazione, il silenzio, l’adorazione e la contemplazione.
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RIGON, P. MARINO SX
Nato nel 1925 a Villaverla (Vicenza) e morto a Vicenza nel 2017, p. Marino entra nei missionari saveriani nel 1938 e viene ordinato nel 1951. Il giovane missionario sognava l’Africa, ma venne invece assegnato all’allora Pakistan orientale (oggi Bangladesh), una terra lontana a maggioranza musulmana che diventerà poi la “sua” terra. Per più di 50 anni vive in una delle regioni più povere del Paese, la Nonadesh: qui condivide il destino di tanti bengalesi che vivono giorno per giorno nella povertà, tra mille difficoltà. Nel 1971, quando il Bangladesh si stacca dal Pakistan occidentale per salvare la sua lingua (il bengoli), scoppia la guerra civile. Padre Rigon si schiera con la gente, mettendo in pericolo la sua stessa vita, e dando ospitalità anche a molti indù, visti come nemici dai musulmani. Anche per questo motivo, padre Rigon ha ricevuto la cittadinanza bengalese onoraria, un evento eccezionale perché per la prima volta nella storia del Paese, prevalentemente musulmano, essa è stata conferita ad un missionario cattolico. L’opera di p. Marino, oltre all’enorme impegno accanto ai più poveri, agli intoccabili, ai perseguitati, è stata anche rivolta al lavoro culturale che lo ha portato a diventare il principale traduttore in italiano delle opere di Rabindranath Tagore, poeta bengalese vincitore del Nobel nel 1913. Il missionario ha letto e approfondito le sue opere, le ha usate nella sua predicazione e poi ne ha tradotte circa trenta. Il suo lavoro in merito è stato realizzato sempre in un’ottica di rispetto e immersione totale della cultura bengalese, scegliendo di adottare una grafia che riproducesse il più possibile la pronuncia originale piuttosto che seguire quella tradizionale, derivante dalla versione inglese. In onore di Tagore, p. Rigon ha anche fondato un Centro studi intitolato al poeta.
Dal Centro Studi Tagore di Villaverla provengono le nockshi kanta esposte; sono coltri ricamate dalle donne dei villaggi del Bangladesh. È singolare il fatto che un umile lavoro femminile, realizzato con migliaia di piccolissimi punti colorati, abbia raggiunto, nel corso dei secoli, il livello di arte.
Le donne dei villaggi bengalesi, usando vecchi sari (vestito femminile), duti o lungi (vestiti maschili), univano in tre strati la stoffa tenendo di solito un pezzo bianco sopra. Stendevano il lavoro davanti alla capanna, sulla terra cotta dal sole e l’artista tracciava, con un filo, graziose immagini trasparenti sulla stoffa. Poi pazientemente, utilizzando i fili uscenti dai vecchi sari colorati, riempivano il disegno con sottili punti. I disegni riportati sulla stoffa richiamavano scene della vita quotidiana, temi storici e religiosi, o avvenimenti festosi. Gli elementi materiali che concorrono alla loro creazione sono poveri e diffusi: il filo e le stoffe. Questi capolavori nascono dal concorso di almeno 4 mani e 2 intelligenze: chi traccia il disegno sulla tela e chi riempie di tanti piccoli punti e colori le linee e gli spazi, cercando di raccontare, con ago e filo, i sentimenti e i pensieri più intimi della propria gente. In questa capacità narrativa emergono le donne bengalesi, dimostrando di saper trarre molto dal poco che hanno.
Anche le poesie di Tagore hanno ispirato la composizione di alcune nockshi kantha come questa, che rappresenta “Il PAVONE”, simbolo dell’immortalità e uccello degli dei.
“Anche se la sera è scesa in quieto torpore,
e tutti i canti a un cenno si son fermati,
anche se non c’è compagno nel cielo infinito,
anche se la stanchezza è scesa nelle membra,
e una grande paura in silenzio ripete formule oscure,
e tutto l’orizzonte è coperto di fitti veli:
tuttavia, uccello, o uccello mio,
ora nell’oscurità non chiudere le ali!”
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Le poesie di Tagore hanno ispirato la composizione di nockshi kantha come questa, che rappresenta “LA VITA SUL GANGE”.
Durante i monsoni, nel Bangladesh, le depressioni, le secche, le gole e i fossati si riempiono di acqua formando nuovi laghi e nuovi corsi d’acqua. Così il pesce diventa abbondante offrendo un’entrata in più all’affaticato contadino.
“Passano le barche sopra il petto del Gange spinte dal vento.
Lontano, banchi di sabbia emersi dalle acque
si godono distesi i riflessi del sole;
sulle rive erose ed alte
piante ricche di dense ombre nascondono le capanne.
Linee di vari colori sulle acque, sulla terra, e dentro la foresta.”
I disegni riprodotti sulla stoffa richiamano anche temi e miti religiosi. Alcune sono dedicate alle divinità dell’Induismo, come questa che rappresenta “la dea LOKKHI”, divinità della bellezza, della ricchezza e della fortuna.
Secondo il Ramaion, poema epico nazionale e libro sacro, Lokkhi è nata dall’oceano in seno ad un fiore di loto. Lokkhi è sposa di Vishnu.
La civetta bianca che accompagna la dea simboleggia la fortuna.
Lokkhi viene festeggiata nel giorno delle luci, nella festa di Diwali che segna l’arrivo ufficiale dell’inverno.
La dea non entra mai nelle case buie e quindi, per lei, si accende la lampada della sera.
I disegni riprodotti sulla stoffa richiamano anche temi e miti religiosi. Alcune sono dedicate alle divinità dell’Induismo, come questa che rappresenta “la dea KALI, la nera”, divinità della distruzione e della vita. Kali può distruggere l’umanità per rigenerare l’uomo, ovvero può distruggere un qualcosa perché esso possa rinascere migliore. Famoso è il suo combattimento con il demone Raktabija (“Seme di sangue”), che duplica sé stesso ogni volta che una goccia del suo sangue cade al suolo: Kali lo sconfigge succhiando il liquido vitale e divorando le copie che il demone ha prodotto, di cui riporta le teste appese al suo collo. Ai piedi vi è il marito Shiva. Kali rappresenta le dure prove attraverso cui gli uomini procedono verso la luce.
La donna è la protagonista di una lunga serie di nockshi, rappresentata nei momenti suggestivi della vita quotidiana, raffigurata negli ambienti in cui vive, come la capanna e il cortile. Le loro attività sono espresse in mille piccoli gesti, comuni a tante donne del mondo, che nelle trame delle nockshi kanta, acquistano colore e un tocco di magia.
Questa coltre ricamata ci mostra la sposa, vestita col sari rosso, abito delle nozze, posta sul palanchino per essere portata incontro allo sposo vestito di bianco. Gli sposi saranno accompagnati da cortei, con danze e musica, allietati da una banda rudimentale che, producendo un po’ di frastuono, richiama la gente alla festa nuziale.
Frasi significative
L’armonia con la natura
“(Nell’india antica) per il continuo contatto con lo sviluppo vivente della natura, la mente dell’uomo restò immune dalla brama di allargare il suo dominio elevando attorno alle sue proprietà mura di confine. egli mirava non a possedere, ma a comprendere, ad ampliare la sua coscienza sviluppandosi con e nel suo ambiente” (R.Tagore, Sadhana)
La pienezza della vita
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“L’uomo deve conseguire la pienezza della sua esistenza, il suo posto nell’infinito. Egli deve sapere che, per quanto voglia sforzarsi, non potrà crearsi da sé il proprio miele dentro le cellette del suo alveare, perché la perenne sorgente di nutrimento della sua vita è fuori dalle loro pareti”. (R.Tagore, Sadhana)
“Quando troviamo il nostro centro nella nostra anima attraverso il dominio di noi stessi, la forza che armonizza e unifica tutti gli elementi separati e in conflitto, allora le nostre singole impressioni si convertono in sapienza, gli impulsi momentanei del nostro cuore trovano il loro compimento nell’amore; allora i minimi dettagli della nostra vita rivelano uno scopo infinito, e tutti i nostri pensieri e tutte le nostre azioni si uniscono inseparabilmente in una interiore armonia”, (Tagore , Sadhana)
“Quando una vita umana, liberatasi da ogni distruzione, trova la sua unità nell’anima, allora d’un tratto la coscienza dell’infinito le diviene diretta e naturale, come la luce della fiamma; ogni conflitto e contraddizione della vita si conciliano; la sapienza, l’amore e l’attività si armonizzano, il piacere e il dolore si unificano nella bellezza, il godimento e la rinunzia nella bontà. La distanza tra finito e infinito è colmata a pieno dall’amore; ogni istante ci reca il messaggio dell’eterno; l’infinito ci tiene in braccia come un padre, ci cammina a fianco come un amico” (R.Tagore, Sadhana)
Il valore della diversità
“L’uomo richiede per il suo perfetto sviluppo tutti gli elementi viventi che costituiscono la sua vita complessa; ed è perciò che il suo alimento deve essere coltivato in campi diversi e preso da diverse sorgenti”. (R.Tagore, Sadhana)

la sala di JEMMY BUTTON : l’esperimento di un’inculturazione imposta dall’alto

La storia di Jemmy Button raccontata nel film “la memoria dell’acqua” didi Patricio Guzmán. Titolo originale El Botón De Nácar 2015 :

La guida Marta…

approfondimento di Massimiliano ” su radici e decentramento”

 

LA DIVERSITA’ E’ SEMPRE NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA

Jemmy Button è il nome che, durante la prima spedizione del leggendario veliero Beagle, il
capitano Robert Fitzroy e la sua ciurma diedero ad un giovane nativo della Terra del Fuoco
(Cile-Argentina) appartenente alla tribù degli Yamana. Il suo nome originario era
probabilmente o’run-del’lico o Orundellico. Jemmy venne preso in ostaggio insieme ad altri
tre nativi dopo il furto di una nave britannica, e fu pagato alla famiglia con un “bottone” di
madreperla, da qui il suo nome. I quattro furono condotti in Inghilterra per essere civilizzati
ed utilizzati poi come mediatori con le loro tribù in Patagonia. Il loro arrivo in Inghilterra nel
1830 destò grande interesse e in breve tempo divennero delle vere celebrità. Dopo
un’iniziale difficoltà dovuta al linguaggio e alle abitudini europee, Jemmy cominciò a
indossare vesti europee e comportarsi come un inglese. Il rapido processo di incivilimento
degli indigeni consentì di riportarli in patria l’anno successivo. La seconda spedizione del
Beagle, resa famosa per la presenza a bordo oltre che di Jemmy Button, del grande
naturalista Charles Darwin, fresco di laurea, approdò in Patagonia nel 1832. Tuttavia dopo
gli iniziali successi l’esperimento sembrò naufragare, quando, pochi mesi dopo il suo arrivo,
Jemmy fu ritrovato ormai privo delle sue vesti europee, seminudo ed emaciato. Alla
proposta di ritornare in Inghilterra, egli oppose un netto rifiuto, che secondo Darwin fu
dovuto all’influsso su di lui della giovane e avvenente moglie. Nel 1855 i missionari presenti in
Patagonia constatarono che Jemmy ricordava ancora parole ed espressioni inglesi.
La R associata a Jemmy è RADICI & RAMI
Radici e rami sono parti complementari e importantissime della nostra esistenza. Le radici
danno stabilità, fermano al terreno, impediscono di cadere ed essere trascinati via dal
vento. Le radici ci danno, inoltre, nutrimento e ci permettono di esplorare ciò che è riposto
nella parte più profonda di noi. Le radici culturali e la dimensione identitaria, se
correttamente concepite, se non elevate a muro, barriera, recinzione, sono strumento di
conoscenza di se stessi e degli altri. I rami e le foglie permettono, invece, al sole e all’aria di
trasformarci; i rami e le foglie si dilatano, viaggiano, si intrecciano; i rami e le foglie, quando
sostenuti dalle radici, fanno della nostra esistenza un continuo arricchimento.
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“Con le mie radici belle salde nel terreno/ io coi rami io mi posso allontanare / perché c’ho
bisogno della terra sotto i piedi / dove dare fondamenta alla speranza. / Proprio come un
albero mi adatto un poco a tutto / basta solo un po’ di clima di accoglienza / no no no alla
violenza / non rivendico nessuna appartenenza / tranne quella al mondo degli esseri viventi
/ col diritto di affondare le radici / sogno un universo dove ogni differenza / sia la base per
poter essere amici” (L.Jovanotti, L’Albero)
Mostreremo in questa sala anche un video di bambini nati in italia da genitori stranieri per
prepararci ad introdurre il concetto di identità.
Nel corridoio del 2° piano ci saranno delle postazioni:
Video BENIGNI: Il senso della vita (https://www.youtube.com/watch?v=fxLuS99tybw) sulla

FELICITÀ
Il BUTHAN il paese più felice del mondo grazie al FIL

In Asia, tra Tibet e India, sulla catena dell’Himalaya, esiste uno stato monarchico chiamato
Regno del Bhutan. Oltre che per le ricchezze naturali, questo piccolo regno di 789.656
abitanti è conosciuto per il FIL, il tasso di Felicità Interna Lorda usato come parametro per
calcolare lo stato di benessere del popolo. Nonostante si tratti di uno dei paesi più poveri
dell’Asia, qui si registra la percentuale di felicità più alta di tutto il continente. I soldi non
fanno la felicità, dunque. In un mondo in cui le persone sembrano aver perso la loro
spiritualità in cerca del benessere materiale, il Bhutan diviene per noi un modello da cui
trarre ispirazione. FIL trae ispirazione dalla filosofia buddhista e pone la persona al centro
dello sviluppo. Anzitutto riconosce che l’individuo, oltre ai bisogni di tipo materiale, ha
necessità di carattere etico e spirituale. Il miglioramento degli standard di vita deve
comprendere il benessere interiore, i valori culturali e la protezione dell’ambiente, mentre lo
sviluppo deve puntare ad aumentare la felicità delle persone, piuttosto che la crescita
economica. Secondo i parametri occidentali basati sul PIL (Prodotto interno lordo), il Bhutan
risulterebbe essere una delle nazioni più povere della terra; in realtà qui nessuno muore di
fame, non esistono mendicanti, né criminalità, il 90% della popolazione ha accesso gratis
alla sanità e all’istruzione pubblica. Ma quali sono, dunque, i fattori che determinano la FIL?
Il primo è la qualità dell’aria, a cui seguono l’istruzione, la salute dei cittadini e la ricchezza
dei rapporti sociali. Arrivare in Bhutan pare non sia semplicissimo, ma la curiosità è tale che
in molti si recano nello stato himalayano con la speranza di capire cosa ci sia dietro il sorriso
di queste persone. Attenzione: questo non significa che i bhutanesi non provino mai tristezza
o paura. Semplicemente non fuggono da queste emozioni, le accettano.
Il discorso di Kennedy contro il PIL
«Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza
personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil
ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso
– comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze
per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel
conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di
forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che
esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini.Cresce con la produzione
di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si
ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per
fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della
qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la
bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro
dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza,
né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura
tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
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L’esperienza di Diawné Diamanka, per ricordarci che la diversità è sempre negli occhi di chi
guarda.

Diawné Diamanka, un cantastorie fulbe, un’etnia dell’Africa sub-sahariana composta
prevalentemente da pastori nomadi. Non era mai uscito dal suo paese, ma nel 1988 fu
invitato a trascorrere un periodo in città da un gruppo di antropologi europei, in modo che
potesse compiere osservazioni etnografiche sugli usi e costumi del nostro mondo». I. Giunto
a Bologna, Diawnè nota ad esempio che le nostre case sono simili a quelle delle termiti, che
la vita qui è molto cara, che per strada si vedono uomini o donne che vanno in giro legati a
un cane, che quando qualcuno si soffia il naso conserva il muco in tasca avvolto in un
fazzoletto. E ancora, invitato a un concerto di musica sinfonica, annota che tutti sono molto
tristi. L’esperienza più spaventosa gli capita però in treno, quando si trova di fianco una
signora impellicciata, che scambia per un animale pericoloso. Da quel che Diawné vide
sotto le Torri, portò a casa una canzone sulle strane abitudini dei bolognesi che ancora la
gente del suo popolo va cantando. Tanto per ricordarci che la diversità è sempre negli
occhi di chi guarda.

SALA CENTRALE VERSO LE CONCLUSIONI :

Massimiliano introduce le conclusioni sottolinendo “la ricchezza delle differenze”

la sala si apre co la figura di

TAKOUA:

racconta la sua esistenza per dare risposte concrete alla possibilità di convivenza tra popoli e culture e lo fa attraverso quella “personaggina” con il velo che è una donna che ha molto in comune con qualsiasi donna a prescindere da cultura, religione e cittadinanza e colore. Doppia cultura, più lingue, nuove tradizioni e altre prospettive delineano il ritratto di Takoua, donna forte, decisa e speranzosa, a lavoro per l’intercultura.

Nota biografica
Tunisina di nascita (1991), romana di adozione. Il suo nome è Takoua Ben Mohamed e di mestiere fa la graphic journalist. Ha scelto il fumetto per raccontare e comunicare, per parlare di integrazione, cittadinanza, discriminazione, dialogo e culture. Sì, culture. Perché è figlia sia della Tunisia, sia dei quartieri periferici di Roma. La sua storia e la lotta alla civiltà la divulga tutti i giorni attraverso quello che lei stessa chiama il “fumetto intercultura”, fondato a soli 14 anni. In Tunisia vive la sua prima infanzia, poi nel 1999 si trasferisce con la famiglia per raggiungere e conoscere il padre che era già a Roma da qualche anno perché esiliato politico, fuggito dalla dittatura di Ben Alì quando lei era appena nata. A Roma è cresciuta,ha forgiato il suo carattere, il suo modo di pensare, ha studiato e costruito il suo carattere. Qui ha potuto costruire la sua identità interculturale, e non sentirsi solo romana o tunisina. Takoua ha scelto il fumetto come chiave di comunicazione per raccontare cosa vuol dire essere musulmana e portare il velo in Italia. Il disegno è da sempre una sua passione, e il fumetto è il suo tipo di arte narrativa perché ha un impatto semplice e immediato che arriva a tutti. L’intento di Takoua non è cambiare le opinioni delle persone, ma farsi ascoltare, parlare e dialogare. E l’ironia è un modo importante per convivere, abbattere muri di pregiudizi e stereotipi. La sua scelta di portare l’hijab è una delle tematiche che affronta con il sorriso e l’ironia. Le motivazioni che l’hanno portata a fare questa scelta religiosa sono nate dopo l’ 11 settembre in quanto, pur essendo molto giovane, comprese che si stava avviando un processo che avrebbe portato a vedere il velo e l’islam in maniera distorta, influenzata dalla politica e dalla disinformazione mediatica. Il primo giorno che ha iniziato a portare il velo aveva 11 anni e le hanno dato della talebana, ma senza saperne davvero spiegare il significato; da quel momento ha deciso di indossarlo sempre. Il suo fumetto si intitola Sotto il velo, è molto ironico e parla di una ragazza velata
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che vive la sua quotidianità nelle strade romane. Tutto è narrato tramite una “personaggina” con il velo che, raccontando anche le piccole cose quotidiane, sottolinea che lei è anche una donna comune come qualsiasi altra donna, che vive le frivolezze e le complessità nello stesso momento. Che è una donna che ha molto in comune con qualsiasi donna a prescindere da cultura, religione e cittadinanza e colore.
La R associata a Takoua è RIDERE CON RESPONSABILITA’
Due cose in particolare distinguono l’esistenza umana da quella di tutti gli altri esseri viventi: una è il linguaggio, la possibilità di comunicare con le parole, di raccontare la propria storia o la storia altrui; l’altra è il riso, la possibilità di ridere. Ridere, quando è l’espressione di autentica gioia o l’esito di intelligente ironia, aiuta a sentirsi davvero vivi, ci permette di entrare più agevolmente in relazione con gli altri, è un antidoto contro il pregiudizio e contro ogni forma di chiusura. Ridere permette di scardinare i luoghi comuni, di togliere peso alla violenza e non solo a quella verbale, di ristabilire un rapporto più profondo e autentico con la realtà.
Tutti siamo chiamati nella nostra vita ad usare l’arma dell’ironia con responsabilità. Non per denigrare, umiliare, dissacrare; bensì per scuotere chi ci circonda dall’ipocrisia dilagante, per strappare il velo dell’ignoranza e del sospetto, per stabilire rapporti più autentici e più umani con chi ci è accanto. L’ironia, adoperata responsabilmente, diviene strumento critico in grado di migliorare noi stessi e gli altri, di evidenziare comportamenti e pratiche scorretti e di procedere dolcemente alla loro correzione. Bisogna che tutti ci sentiamo responsabili del mondo che ci circonda e che ci impegniamo, alcuni a raccontarlo con ironia, tutti a trasformarlo.

Aprendoci alle altre culture: il giardino planetario

visuale della sala:

l’illustrazione di Marta :

il raccontoi ai bambini (massimiliano e l’intervento di padre Pandri)

FESTA DEI POPOLI SALERNO: esperienza cardine dell’Animazione missionaria saveriana che si
struttura proprio intorno ai tre verbi: Vivere – sopravvivere – convivere. Consapevole che
l’evoluzione culturale ha rimpiazzato quella biologica come forza principale del
cambiamento, riconosce nella diversità un valore socialmente fondante, all’interno della
sua unicità e trasformabilità, e per questo la decennale esperienza invita tutti a guardare la
diversità come una garanzia di futuro per l’umanità, in questa società multietnica in cui tutti,
autoctoni e migranti, siamo impegnati a vivere, sopravvivere e convivere. Nella Festa dei
Popoli Salerno, i tre verbi si declinano così:
Vivere, ovvero, impegnarsi nella politica dell’interAzione, della convergenza che, a partire
dalle reali differenze culturali e attraverso logiche comunicative, tentare di conciliare le
molteplici identità, sia quelle personali che quelle di comunità, mediante il dialogo;
Sopravvivere, ovvero, favorire relazioni di Comunità, elemento chiave nel rapporto politico
tra Stato e cittadino, a sostegno di chi soccombe alla fatica del vivere;
Convivere, ovvero testimoniare la convivialità delle differenza.
Il 14 Maggio 2017 si è svolta a Salerno la 9° edizione della FESTA dei POPOLI, una
manifestazione di piazza, programmata al termine dell’annuale percorso che l’Arcidiocesi
di Salerno–Campagna-Acerno propone alle comunità straniere (ben 16) che vivono il
territorio salernitano, sotto la guida dell’Ufficio Migrantes. Il Laicato Saveriano di Salerno
affianca in questa esperienza gli Uffici della diocesi, unitamente ai Missionari Saveriani,
presso la cui struttura si svolgono gli incontri mensili e i momenti di agape fraterna
multiculturali. Il tema dell’edizione 2017 è stato dedicato ai FIORI. I fiori sono sempre stati un
incomparabile dono di bellezza. Da tempo immemorabile, sono considerati detentori di
significati e poteri mistici, intrecciati con le tradizioni popolari di tutte le nazioni. Oltre che per
la loro dimensione spirituale legata al culto, le piante e i fiori erano apprezzati anche come
rimedi efficaci contro molti mali fisici e per la cosmesi. Prima che nascesse la scrittura, i fiori
sono stati usati come forma di comunicazione simbolica, particolarmente ricca nelle
tradizioni orientali. Oltre a riflettere la personalità degli uomini, sono stati utilizzati per
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rispecchiare il carattere nazionale di un popolo. In tutte le culture popolari, da sempre i fiori
sono l’immagine della vita: emblema della rinascita del ciclo stagionale, simbolo di gioia e
di lutto, di amore terreno e celeste. Ed è questo il motivo per cui in tutto il mondo vengono
utilizzati in diverse cerimonie. Una conoscenza, questa, che è stata promossa e diffusa
nell’edizione 2017 della Festa dei Popoli di Salerno, dove le diverse etnie e culture hanno
sfilato e ballato, adorni di fiori, in armonia, trasformando la città, anche se per poco tempo,
nella patria della solidarietà e dell’amicizia fra i popoli. In una piazza ricca di profumi e
colori, vi era anche il Giardino Planetario.
Noi, come piante, siamo quello che dalla terra abbiamo assorbito: la nostra cultura, la
tradizione … questi elementi alimentano le nostre radici e consentono il nostro sviluppo, la
nostra evoluzione.
Il giardino planetario è un principio, il suo giardiniere è l’intera umanità. Il giardiniere
planetario propone di guardare la diversità come una garanzia di futuro per l’umanità.
Ispirata al pensiero di Gilles Clement, scrittore e architetto del paesaggio di origine
francese, la Consulta Festa dei Popoli Salerno ha cercato di esplicitare il suo pensiero
politico che trova sostegno nella capacità di stupirsi della diversità ed avvicinarla, nel fidarsi
della mescolanza come principio di evoluzione, nel guardare al margine come spazio
comune del futuro, nell’imparare a leggere la similitudine che intercorre tra erbe, arbusti e
fiori migranti, che abitano la nostra terra e adornano le nostre case, e i flussi migratori delle
umane genti. Le piante viaggiano, soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei
venti. Niente è possibile contro il vento. Per la diffusione delle specie, la natura ricorre a ogni
possibile vettore. Non c’è nulla che non sia adatto al trasporto: dalle correnti marine alle
suole delle scarpe. Ma la gran parte del viaggio spetta agli animali. La natura prende in
prestito gli uccelli consumatori di bacche, le formiche giardiniere, le docili pecore,
sovversive, il cui vello racchiude campi e campi di sementi. E poi l’uomo, animale
tormentato in continuo movimento, libero scambiatore della diversità. L’evoluzione ha così il
suo tornaconto. La società no. Il minimo progetto di gestione dell’evoluzione, per l’uomo,
cozza contro il calendario delle sue previsioni, su cui basa il suo sistema di vita (economicofinanziario,
gestionale, amministrativo….). Per questo si diffonde nel nostro quotidiano
parlare, l’uso di alcuni verbi, sinonimo di azioni umane e politiche, quali: ordinare, imporre,
conservare, gestire, vietare, regolare, fissare le norme e le quote di esistenza, definire nemici
o minacce gli esseri che osano valicare questi limiti, dichiarare guerra. Al cospetto dei venti
e degli uccelli, per l’uomo contemporaneo rimane il problema dei divieti nel suo migrare.
Chi vive, da autoctono, un territorio è chiamato ad accogliere il nuovo che arriva, il
migrante, per essere testimone della diversità che connota gli esseri e dar vita a diversità di
configurazioni, interagendo con loro, dandosi possibilità strutturate di vita insieme. Si potrà
così dar vita ad un giardino planetario, spazio del mescolamento e dei flussi che rimodella
identità ed appartenenze, dove ciascuno, osservando la vita umana nella sua naturale
dinamica, potrà essere mediatore privilegiato di matrimoni inattesi, attore diretto e indiretto
del vagabondaggio e a sua volta vagabondo. Eppure le diversità sono valori, sono valori
socialmente fondanti, dalle quali può nascere una nuova comunità, una nuova società,
frutto dell’evoluzione culturale che corre mille volte più veloce dell’evoluzione
biologica/darwiniana, perché supportata dalle idee, dai pensieri e non dall’eredità
genetica.
VIDEO: Noi giardino delle differenze

Passeremo DAL GIARDINO ALL’ORTO…per esprimere
“E PLURIBUS UNUM”: esistere come individuo significa coesistere con gli altri.
“Da molte, una cosa sola” è il motto inciso nello stemma degli stati uniti d’america e allude
alla pluralità degli stati che costituiscono – attraverso l’unione – la nazione americana. È il
motto di una squadra di calcio, il Benfica, che così si predispone al gioco di squadra. Lo si
ripete nei molti casi in cui, dalla pluralità, si giunge – con vincoli di vario genere – all’unità di
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popoli, di sentimenti, di forze ecc. Lo slogan è tratto dal “Moretum”, uno dei componimenti
dell’Appendix Vergiliana, ma che già l’antichità riteneva fosse d’altro autore; si parla di un
contadino, Symilus, che prepara il suo pasto prima di aggiogare i buoi e disporsi all’ aratura,
mentre una schiava nera prepara il pane. Dall’ orto, che l’autore descrive in gustoso
dettaglio con le sue verdure e gli odori, il buon Symilus si procura gli ingredienti e i colori:
aglio (bianco), punte di prezzemolo (verde), ruta indurita (giallo) ed esili coriandoli (rosso). E
prende scaglie di formaggio conservato nel sale. E pronti altri sapori, profumi e colori: il sale
bianco, l’aceto rosa e l’olio verde. Symilus monda e disveste le verdure, le lava e, mentre
con la destra impugna il pestello, si aiuta, con la sinistra, a tenere fermo lo straccio di grezzo
lino che fascia il mortaio di pietra. Comincia a schiacciare l’aglio, poi le foglie superbe e ne
ricava una poltiglia profumata. E, man mano che il pestello va, nota che il colore bianco si
perde nel verde e il verde impallidisce e ne deriva un altro colore che segnala come
perdendo la singola virtù se ne crei una del tutto nuova.
E sale il profumo intenso e va a ferire le narici di Simulo/Symilus e gli strappa qualche lacrima
che si asciuga col dorso della mano e qualche imprecazione.
Il pestello rallenta e segnala il momento di aggiungere qualche goccia di aceto ed
abbondante olio prima della mescola finale. Aiutandosi con le dita trasporta l’impasto al
centro del mortaio e, con la mano, lo sagoma in forma di torta.
Un uomo ed una donna, mani bianche e mani nere, profumi e sapori e colori, sudore e
lacrime, olio e aceto e sale, imprecazioni ansimanti, pietra e lino. Sessi, razze, colori, fatiche,
attese: “e pluribus unum”.
La R associata a Symilus è RICETTA

 

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